“Il passato, se stiamo attenti, è un tempo invasivo” (La Figura)

“Il passato, se stiamo attenti, è un tempo invasivo” (La Figura)
“Il passato, se stiamo attenti, è un tempo invasivo” (La Figura)
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” J“Ho lasciato che la mia famiglia salisse di sopra e si sistemasse in qualcosa, diciamo, inaccettabile” afferma il narratore all’inizio del nuovo libro di Bertrand Belin. «È in fondo a questo edificio, sui pochi gradini di cemento che danno sul parcheggio, che mi trovo da allora. » Da cosa? Da quando la sua famiglia si è trasferita in una nuova casa, ed era ancora un ragazzino, ha deciso di non seguirne l’esempio. Il bambino decise di districarsi da questa “cattiva macchina della crescita” prendendo residenza proprio sotto l’edificio, stabilendosi per lungo tempo in una sorta di accampamento solitario e selvaggio, dove rimase per tutto il tempo a mettere i denti e superare le tappe scolastiche. .

Torcendo il collo a ogni preoccupazione di verosimiglianza, Bertrand Belin racconta, dal punto di vista del narratore divenuto adulto, la vita di un bambino che si è separato ritagliandosi uno spazio tutto suo, al riparo dal disastro domestico. Nella solitudine del suo campo base, questo emarginato volontario è accompagnato dal suo doppio, “la Figura”, una voce interiore tanto fedele quanto irritante, con la quale intrattiene un dialogo casuale. Lo scrittore, conosciuto anche come cantautore, costruisce qui una strana famiglia a porte chiuse in cui il protagonista principale sta fuori, osservando gli altri ma non facendosi vedere da nessuno. “Tutto, vedo tutto, da dove sono vedo tutto, sento tutto”, cantava Bertrand Belin nel suo titolo “Grand Duc” (album Persona). Vedere tutto, sentire tutto, tale sembra essere anche la bravura di questo narratore che passa “tutto il dannato tempo” rosicchiando accanto ai cespugli che circondano l’edificio, ma che tuttavia si dimostra anche testimone di ciò che avviene all’interno. l’appartamento di famiglia. In un linguaggio barocco, insieme burlesco e tragico, consegnerà in goccioline l’evocazione di «serate di lotta, di sangue, di vergogna» dove si scatena la violenza paterna, quando l’appartamento sembra «ribaltarsi» e «girare su se stesso come una betoniera”.

Bertrand Belin costruisce una situazione narrativa decisamente non realistica, tesa tra favola e allegoria; ma questo rifiuto di ogni autobiografia diretta si rivela il mezzo migliore per dire davvero qualcosa di sé. “Stai zitto, non dire niente, ci ho già provato. Ciò non è sostenibile”, afferma il narratore di La figura. “Sto soffocando, è facile capirlo. Per questo voglio dire chiaramente di cosa si tratta. » Far accadere una parola, contro il silenzio soffocante imposto dal capofamiglia, ecco la posta in gioco. L’artificio narrativo scelto da Belin evoca quello del suo primo romanzo, Squalodove ha immaginato un personaggio colto anch’egli in una situazione di radicale (e fatale) solitudine: vittima di un crampo, si dibatte nell’acqua, solo in mezzo a un lago, occupando i pochi istanti che gli restano prima di sprofondare nel ricordo di certi momenti significativi episodi del suo passato. Una storia di fantasia il cui cuore ardente era già l’espressione della violenza familiare.

E La figura non si presenta quindi come un’opera apertamente fattuale, resta il fatto che Bertrand Belin prende di petto alcuni elementi biografici menzionati nei suoi libri precedenti in modo più o meno obliquo o eufemizzato. Perché La figura è un libro di rabbia: questo affetto, finora così poco presente nel suo universo, trova qui il suo pieno posto. Rabbia contro chi non faceva nulla, non voleva avere niente a che fare con una situazione familiare caotica; rabbia, soprattutto, contro il padre, che si esprime in modo particolarmente corrosivo in una breve “lettera al padre” à la Kafka che il narratore scrive mentre il patriarca sta morendo: “Oh caro padre, lo dico così m È arrivato, non lo riprenderò, troppo tardi, padre, tu saltavi, ti contorcevi, squadravi al minimo spiffero. Hai le tue ragioni e non ti perdono nulla. »

È questa rabbia, in particolare, che dà la sua energia e il suo ritmo alla prosa di Bertrand Belin, che dà libero sfogo più che mai al suo linguaggio, sia orale che scrittissimo, e alla sua singolarissima cosmogonia, dove gli aforismi e frasi filosofiche si scontrano con immagini molto materiche, un gusto per il concreto che lo porta ad evocare fauna, flora ed elementi naturali.

“Tuttavia, questa serie di meandri e appendici non vuole essere carina. Al contrario. Sogno di poter dire le cose chiaramente. Dichiararli sotto il regime di abbaiare. Nessun’altra voce oltre a quella. Una voce unica. Senza più poesia, né meno, di una vasca che si svuota. Solo quando abbaio mi spavento. Non è umano. »

La storia procede per circonvoluzioni, ma tende sempre all’evocazione, a lungo annunciata e a lungo ritardata, della vita familiare nell’appartamento: la violenza illimitata del “capofamiglia”, la sofferenza anch’essa illimitata della madre. , il cui grido è evocato come un “canto” – unica suggestiva allusione alla musica dell’intero libro, e che lascia intravedere l’omaggio che il suo autore vuole rendergli. “Ho sperimentato shock e stupore prima che quelle emozioni diventassero la promessa il minimo mostre d’arte contemporanea. Questo grido era una canzone. E mi ha preso a pugni, questo è tutto. Il canto precede il discorso, segue da vicino il grido. E riappare solo una volta superata la parola. » Se si avverte, qui come altrove nel libro, una dimensione di critica sociale, Bertrand Belin ha sempre il tatto di evitare i paroloni, i paroloni: la sua storia può essere letta anche come un rifiuto o una difesa contro una certa letteratura che tende promuovere la chiarezza della testimonianza. Il pathos, la miseria, così come l’esaltazione del disertore di classe o della vittima vengono rimandati alle corde dal suo stile inattuale.

Ciò su cui sta lavorando qui è piuttosto armeggiare con un’architettura di resistenza per contrastare il silenzio, come un’eco dell’accampamento selvaggio una volta costruito dal bambino. “Il silenzio da solo non esiste, ha bisogno di un luogo e questo luogo, lo delimito qui, erigendo questo belvedere fraseologico in mezzo ad una pagina bianca e questo senza permesso di costruire. »

Bertrand Belin, La figuraEdizioni POL, gennaio 2025, 176 p., €18

Crediti fotografici: BERTRAND BELIN © BASTIEN BURGER – POL

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Belgio

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