“La musica è uno specchio di ciò che non vedo, mi scopro attraverso i suoni”

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La compositrice italiana Clara Iannotta, nuova programmatrice musicale del Festival d’Autunno, 27 giugno. JULIA WESELY

A 41 anni, Clara Iannotta è una delle figure principali della musica contemporanea. Le sue opere, basate su timbri inusuali, creano uno spazio di originalità tanto intimo quanto penetrante. Dopo aver studiato in Francia (Conservatorio di Parigi, Ircam) e negli Stati Uniti (Università di Harvard), si stabilisce a Berlino e insegna a Vienna.

Tu e la tua musica siete la stessa cosa?

Sì, anche di più. È uno specchio di ciò che non vedo, mi scopro attraverso i suoni. È un po’ come un diario, ci sono posti in me che le parole non possono raggiungere, ma che possono essere raggiunti più facilmente con i suoni.

Dopo aver completato un lavoro, ti senti come se avessi esaurito l’argomento?

No, in realtà il pezzo non è mai finito. Da tre o quattro anni non cerco più un finale per i miei pezzi. O il tempo a mia disposizione è passato, oppure non ho più voglia di continuare, quindi mi fermo. Quindi ho l’impressione di scrivere sempre lo stesso pezzo o di continuare a scrivere lo stesso pezzo. E’ davvero la fotografia di un periodo.

Uno scatto che dura. E tu stai al gioco, perché non cerchi una forma equilibrata, articolata, pianificata. La tua musica sembra evolversi in modo paradossale…

Assolutamente ! A volte ho difficoltà a seguire i suoni che ho scritto sulla carta. Un anno o due fa ne ho parlato con la compositrice Chaya Czernowin, con la quale ho studiato all’Università di Harvard e che ora è mia amica. Gli ho spiegato che mi sarebbe piaciuto far muovere i suoni in un certo modo, ma che vedevo che dovevano evolversi diversamente. Poi mi ha detto di vederli da bambini. Li facciamo apparire e poi li seguiamo, ma non li forziamo.

Per prima cosa creo un mondo astratto che sia sonoro, e appena gli do realtà devo seguirlo. Anche se mi porta in un posto molto difficile da accettare. Questo è anche il motivo per cui ho scelto di fermare i miei pezzi sul loro cammino. Se consideriamo il suono come un organismo vivente, non possiamo realmente decidere quando finirà, dobbiamo solo lasciarlo andare quando sarà il momento. In questa situazione, non credo nella morte.

Ma è molto presente nelle tue opere, in particolare in quelle incentrate sulla poesia di Dorothy Molloy. Non ci credi perché la composizione ti permette di toccare l’infinito o semplicemente perché rappresenta un concetto che non puoi immaginare?

No, no, la morte è molto concreta. Oltretutto nel 2020 ho avuto il cancro e da allora lei mi è sempre stata vicina. Ho perso anche mia madre l’anno scorso… I miei pezzi non sono dedicati alla morte, ma ci pensano. Non credo nella morte nella musica, vale a dire che il modo di fermarsi, non lo vedo organicamente nei miei pezzi. Come ci fermiamo? Delicatamente, attraverso un diminuendo, o, al contrario, attraverso un accento?

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