Antonio Scurati: intervista all’autore italiano

Antonio Scurati: intervista all’autore italiano
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“Il deterioramento della democrazia è già qui”

Valerie Segond Roma

Pubblicato oggi alle 7:36

Antonio Scurati quasi si scusa. Autore di una celebre trilogia su Mussolini, (“Il signor figlio del secolo”, “L’uomo della provvidenza”, “Gli ultimi giorni d’Europa”, Éditions Les Arènes), un sunto della storia quotidiana del fascismo , tradotto in quaranta lingue, è, dice, solo un “romanziere documentaristico”, ma né uno storico né un analista politico. Censurato dalla Rai, si confida ai giornali europei dell’alleanza LENA a cui partecipa la “Tribune de Genève”.

Sei stato attaccato personalmente dal governo, in modo violento, come hai detto. Ti aspetti delle scuse?

Non si scuseranno mai, non è né nel loro carattere né nel loro interesse. A differenza del fascismo, il populismo non utilizza la violenza fisica. Ma vedersi screditato come volgare approfittatore, e accusato di oltraggio all’istituzione nei primi telegiornali, è una grande violenza psicologica. Sono stato presentato come un criminale a milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di me. Questo non è il primo attacco verbale che subisco da parte dei sostenitori del governo. I giornali vicini al potere hanno messo in prima pagina la mia foto con la didascalia “uomo di M…”, hanno messo davanti alla mia porta una busta piena di escrementi secchi e hanno scritto “Scurati de m…” sul mio muro. Questi incitamenti all’odio mi costringono a guardarmi attorno quando esco, anche se non ho cambiato vita. E crea un profondo disagio sapere che i governi eletti dal popolo possano arrivare a questo punto.

Per giustificare la censura nei tuoi confronti, il governo ha sostenuto che gli intellettuali non dovrebbero essere pagati. È questo un sintomo di populismo?

Sì, il discredito dell’intellettuale, dell’intellettuale di sinistra e ancor più dello scienziato, è infatti una caratteristica dell’estrema destra e del suo populismo. Perché per questo diritto il leader sono le persone, che a loro volta si identificano con il leader. Anche ogni persona al di fuori di questa unione mistica e che difende posizioni, o anche critiche al leader, appare come una minaccia contro il popolo. Spiegando che gli scienziati che hanno parlato durante la pandemia, come i tecnici a Bruxelles, sono oggetto di violente proteste populiste. Per una società moderna questo è mortale perché obbedisce ad un impulso oscurantista e reazionario che si oppone a qualsiasi idea di progresso.

La censura nei tuoi confronti è un caso isolato oppure ci vedi la tentazione autoritaria del governo?

No, ci sono già stati molti casi di censura che fanno parte di un progetto culturale, quello di usare la politica per imporre l’egemonia culturale. Nominano persone senza alcuna esperienza o merito a posizioni chiave, basandosi esclusivamente su legami politici o di sangue. Quando la sinistra nominava i suoi uomini a incarichi dirigenziali nella Cultura, si trattava di personalità con un background davvero buono, e questo non intendeva imporre un’ideologia. In Italia il modello oggi è proprio quello ungherese come ha sempre sostenuto Giorgia Meloni.

Come spiegare che in Italia ci siano ancora nostalgici del fascismo?

L’Italia non ha mai regolato i conti con il fascismo, come ha fatto la Germania con il nazismo. Ciò gli ha impedito di andare oltre, di rifiutare definitivamente questa parte della nostra storia, la sua cultura e la sua ideologia. Ciò è legato agli equilibri del dopoguerra, ma ha anche una ragione culturale: il fatto che la storia della Repubblica, della Costituzione e della civiltà italiana si fonda sul mito della Resistenza come atto fondatore della Repubblica. Anche il fatto che il fascismo fu raccontato dalle vittime del fascismo, lasciando nell’ombra una verità fondamentale che dovette essere elaborata per essere assorbita, e cioè che proprio l’Italia fu la culla del fascismo. Riconoscere la nostra responsabilità sarebbe stato l’unico modo per rimandarla nel passato, e seppellire questa parte di noi stessi una volta per tutte. Ma ciò non è stato fatto. E sebbene l’arrivo al potere di Fratelli d’Italia (il partito di Giorgia Meloni) sia stata l’ultima occasione storica per realizzare questa catarsi della coscienza nazionale, è stato accuratamente evitato.

È cambiato il modo di parlare di fascismo in Italia da quando Giorgia Meloni è salita al potere?

Senza dubbio, ma questo processo di revisione del fascismo è iniziato prima di lei, sotto Berlusconi. Il giudizio negativo sul fascismo, che ricordo era condannato nella nostra Costituzione, si è notevolmente attenuato. Ciò che è più grave con l’arrivo dei postfascisti è che l’idea che l’antifascismo sia un fondamento della nostra democrazia, il nostro patrimonio comune, viene sistematicamente respinta. Più che riabilitare il fascismo, chi è oggi al potere vuole cancellare l’antifascismo dalle fondamenta della nostra Repubblica e della nostra Costituzione.

Perché Giorgia Meloni rifiuta di definirsi antifascista? Per non perdere le voci nostalgiche o perché non ha rinnegato le sue radici ideologiche?

L’ostilità verso l’antifascismo è nella sua stessa cultura. È una radice profonda della sua identità, della sua storia personale e politica, come di quella di persone che sono state poste in posizioni di leadership. Alcuni, come il candidato di Fratelli d’Italia alla presidenza della Sardegna, Paolo Truzzu, se lo portano addirittura tatuato sul braccio. Al di là dell’aspetto pittoresco, la cosa più preoccupante è che questa ostilità verso l’antifascismo guida il programma politico del governo. Non si tratta più di un giudizio personale, ma di una scelta politica profonda che dimostra che l’obiettivo di questo governo non è quello di una destra liberale, bensì illiberale.

Giorgia Meloni è riuscita a smussare la sua immagine all’estero. Ritiene che le capitali europee si siano addormentate, che si rifiutino di vedere un indebolimento della democrazia in Italia e che rischino di avere un brusco risveglio?

Le azioni del governo che indicano che sta coltivando un progetto di democrazia autoritaria sono numerose e non si tratta di piccole misure. La riforma costituzionale, ad esempio, con l’elezione diretta del capo del governo che indebolisce la figura di garante del Presidente della Repubblica ed emargina il parlamento, risponde bene all’obiettivo di tutti i populismi sovranisti nonché del fascismo mussoliniano. Il pericolo per la democrazia, infatti, esiste già, anche se non si tratta tanto di sopprimere la democrazia per instaurare un vero regime dittatoriale, quanto di degradarla qualitativamente erodendone quotidianamente le fondamenta: già, la censura degli intellettuali, i procedimenti giudiziari contro giornalisti, la violenza del confronto pubblico che ormai si limita ad attacchi personali da parte delle istituzioni, tutto ciò indica che il deterioramento della democrazia è già lì.

La maggioranza degli italiani ritiene che l’Ucraina debba negoziare la pace. La Festa della Liberazione è già finita? L’Italia ha perso il senso della lotta?

Sì, questo significato è andato perduto. Ma non solo tra gli italiani. Ciò è vero in tutta l’Europa occidentale per ragioni antropologiche, mentre da 80 anni conosciamo, ad eccezione della guerra dei Balcani, il periodo più lungo di pace e prosperità. Questa pace è stata un enorme privilegio, conquistato attraverso la lotta, ma è stato accompagnato da un individualismo egoistico, da un ottundimento della coscienza civica, da una forma di apatia e di stanchezza morale. Non possiamo rimpiangere il periodo in cui dovevamo “morire o uccidere”. Ma dobbiamo riconoscere che siamo colpiti da una malattia spirituale.

Quale sarebbe il rischio per l’Europa se Giorgia Meloni e i suoi amici sovranisti ungheresi e polacchi conquistassero un gran numero di seggi alle prossime elezioni del Parlamento europeo dell’8 giugno?

Il rischio è che blocchino il cammino dell’Europa verso l’unità politica e la creazione di una difesa europea. Se la Meloni è diventata atlantista, e se questo ha contribuito ad accreditarla nella comunità internazionale, è una scelta tattica: perché la sua stessa natura – come quella del suo elettorato – la spingerà a impedire lo storico processo di integrazione dell’Europa.

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