Recentemente ho letto un articolo di La stampa che mi ha scosso.
Si parlava di una famiglia libanese che si era stabilita a Laval da qualche mese. Cito la madre: “Amiamo Laval. È come se fossimo in Libano! Qui ci sono più arabi che cittadini del Quebec”.
La giornalista completa il suo intervento: “Questa multiculturalità è una risorsa per suo marito […]che non padroneggia ancora bene il francese. Prima di dare nuovamente la parola alla madre: “Ecco, lui si trova a suo agio con la lingua”.
Immigrazione
Prima cosa: per questa signora Laval non è culturalmente quebecchese. Comprendiamo anche che non si accontenta di una definizione strettamente legale di cosa sia un quebecchese. Per lei, un quebecchese appartiene alla storica maggioranza francofona. Ed è felice che i cittadini del Quebec siano in minoranza. Ciò gli permette di vivere nella sua comunità d’origine senza assumere l’abitudine del paese ospitante.
Vuole i benefici della società del Quebec, senza soffrire per i quebecchesi che, se troppo numerosi, la graverebbero. Voglio scrivere: felice di sapere che nessuno la disturba!
Seconda cosa: questa situazione fa sì che suo marito non debba parlare francese, che la sua scarsa padronanza della lingua nazionale non sia un ostacolo alla sua vita quotidiana. Impariamo una lezione da questo: nonostante i grandi discorsi del governo, il francese non è necessario in Quebec. Affinché gli estranei si sentano a casa nostra, ora dobbiamo sentirci stranieri a casa nostra. Il giornalista la presenta come una buona notizia. Sorpreso?
Scomparsa
Riassumiamo: questa famiglia, cristiana del resto, che potrebbe teoricamente facilitare la sua integrazione, arriva in un paese così demograficamente modificato che non deve più fare uno sforzo di integrazione culturale per viverci. Il giornalista, orgoglioso di interpretare una felice inclusività, trova questo meraviglioso.
Impariamo una lezione da questo articolo gioviale e involontariamente rivelatore: l’immigrazione di massa ci condanna all’estinzione.