Il libro della nostra vita

Il libro della nostra vita
Il libro della nostra vita
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Stiamo preparando questo Rosh haShana per aprire lo stesso libro di preghiere e girare le stesse pagine dell’anno scorso per pronunciare le stesse parole, le stesse righe lette da generazioni e generazioni prima di noi. Noi stessi abbiamo detto queste parole l’anno scorso e l’anno prima ma, dobbiamo ammetterlo, non eravamo proprio gli stessi. Tutto è cambiato e niente è più come prima. Eppure la nostra tradizione ci dice: Sforzatevi di collegare tra loro i tempi della vostra vita, sforzatevi di “connettervi”, di “rileggere”. Sappi sfogliare gli stessi libri anche se non sei più la persona che eri quando li hai scoperti.

Vorrei quindi iniziare con la storia di un libro, o meglio, di una biblioteca. Alcuni mesi fa sono tornato in Israele per la prima volta, per la prima volta dal disastro del 7 ottobre. Temevo questo viaggio: temevo il confronto con il dolore e il lutto di un intero popolo. Non sapevo se sarei stato in grado di dargli conforto, o se sarei stato in grado di trovarlo da solo.

Durante questo soggiorno mi è stata offerta di visitare la nuovissima biblioteca nazionale. Forse conosci questo magnifico edificio a Gerusalemme, nuovo di zecca e costruito proprio di fronte alla Knesset e al Museo di Israele. Un’opera architettonica che avrebbe dovuto essere inaugurata proprio all’inizio di ottobre 2023 se l’attualità non avesse deciso diversamente. E all’improvviso eccomi qui in questo imponente edificio, accompagnato da una guida. Passeggiare tra le sale di lettura e di esposizione, di fronte alle eredità di tutte le diaspore ebraiche nel mondo e ai tesori letterari di tanti strati di culture che legano tra loro i loro destini e si incontrano a Gerusalemme.

La mia guida mi suggerisce di visitare la sezione dedicata alle collezioni di manoscritti. Apre un cassetto, e poi scopre una pagina, parole che sembrano scritte a macchina e dove appaiono, ai margini, tracciate a matita, quelle che sembrano correzioni dell’autore. Ed è lì che la mia guida mi spiega di cosa si tratta: un manoscritto donato da David Grossman, il famoso scrittore israeliano. Ma, mi spiega, le correzioni a margine non sono sue. Sono stati realizzati da suo figlio, il suo primo lettore. Piccole modifiche annotate, commenti di un figlio al padre scrittore.

Un’emozione potente mi invade perché in quel momento lo capisco ce cassetto contiene infatti il ​​tesoro più prezioso della storia ebraica: la consapevolezza che i nostri figli sono sempre non solo i nostri primi lettori ma soprattutto i nostri redattori, coloro che mettono parole a margine dei nostri testi, per far sì che lasceremo nel mondo dopo di noi , un po’ meglio “manoscritti”, testi o messaggi che meritano di essere trasmessi.

Ovviamente capisci cosa intendo, simbolicamente. La tradizione ebraica crede che i nostri figli ci correggono, ci superano, ci superano… Ci elevano perché aggiungono alla nostra vita qualcosa come un commento a margine. Questo è il vero motore della madre (o del padre ebreo) di cui tanto parliamo: la paura che ai nostri figli succeda qualcosa, che impedisca loro di scrivere il resto di una storia, o di restituire la nostra più giusto.

A volte la paura del panico delle madri ebree diventa realtà e piangono per i bambini che sono stati loro portati via – questo purtroppo è accaduto spesso nella storia. Questo è esattamente quello che è successo a David Grossman, molto tempo dopo che suo figlio aveva annotato i margini del suo libro. Suo figlio, Uri, è morto all’età di 21 anni, ucciso nel 2006 durante un’operazione militare in Libano…

Ed eccomi qui, a guardare queste pagine del manoscritto o ad evocarle ora davanti a voi, mentre un’altra guerra, e ora un’altra operazione in Libano, è in corso, mentre da mesi tanti bambini innocenti, in Israele o a Gaza, muoiono senza avere avuto il tempo di leggere, annotare o scrivere il proprio libro.

A dire il vero: mi vergogno di scrivere queste parole. Peccato per il lirismo che ne emerge, per la poesia che qualcuno vi leggerà, perché la bruttezza della guerra e l’orrore del lutto non dovrebbero mai essere espressi con metafore ispiratrici, poesia letteraria o linguaggio elegante. Le parole non potranno mai descrivere un lutto, soprattutto quello dei genitori che piangono un figlio.

L’ho scritto spesso: in francese non esiste una parola per definire come siamo quando perdiamo un figlio. Siamo orfani quando perdiamo i nostri genitori, restiamo vedove quando perdiamo il nostro coniuge, ma la nostra lingua rifiuta di dire cosa siamo quando siamo in lutto per un figlio o una figlia. Come se il linguaggio stesso mettesse a tacere questo dolore. La maggior parte delle lingue dimostra la stessa negazione o rifiuto.

Non ebraico: in questa lingua esiste una parola per dire l’indicibile e per descrivere questo stato. Questa è la parola di shakoul, שכול. Chiamiamo i genitori in lutto Horim Shekoulim Genitori in lutto. Alcune persone non sono d’accordo av shakoul Padre in lutto et sono Shekoula אם שכולה – padre o madre il cui figlio non c’è più.

Anche questa parola è molto strana. Nessuno sa esattamente quale sia la sua etimologia. Nella Bibbia a volte è usato per definire un animale la cui prole non sopravvive. Ad esempio, molte volte i versetti usano questa parola per descrivere una madre orsa a cui viene tolta la prole.

Ma questo termine è usato anche in ebraico per definire lo stato di un albero… più in particolare lo stato di una vite il cui grappolo è stato tagliato – questo ha dato un’altra parola che forse conosci: eshkolEshkol, il grappolo d’uva.

Il genitore defunto è paragonato a un tralcio che dovrebbe nutrire il frutto che produrrà il vino, bevanda sacra se mai ce n’è stata una, ma quando il grappolo viene tagliato, la vite non sa più dove mandare la linfa che scorre al suo interno. L’immagine è travolgente, sarete d’accordo.

Durante il mio soggiorno in Israele, purtroppo, ho dovuto incontrare molti genitori che questa parola o questo stato definiscono. Coloro il cui dolore o dolore avrebbero potuto, avrebbero dovuto, far crollare il mondo intero. Ho abbracciato genitori o nonni i cui figli sono lontani. Genitori o nonni che aspettano disperatamente il ritorno dei propri figli e figlie e altri che, purtroppo, sanno già che non torneranno.

Penso in particolare questa sera a Edna ed Eli Bibas, che ho avuto l’onore di conoscere, i genitori di Yarden Bibas, i suoceri di Shiri Bibas, i nonni di Ariel e Kfir, questi due bambini dai capelli rossi i cui il suo volto ci perseguita da un anno.

Penso a John e Rachel Polin-Goldberg, con i quali ho pregato quest’anno nella loro comunità di Hakhel a Gerusalemme, loro la cui voce ha incarnato la dignità umana per molti di noi, loro che ora sanno che il loro unico figlio, Hersh, non verrà a casa vivo.

Il secondo giorno di Rosh haShana leggeremo, come ogni anno, la stessa cosa giorno ferialelo stesso brano di un libro profetico dove, attraverso le parole di Geremia, ascolteremo questo “Rachel piange per i suoi figli” e attende il loro ritorno. Ma la matriarca di questo verso ha per me ormai e per sempre il volto di quest’altra Rachele, sono Shekoulala madre addolorata di un figlio amato.

Attraverso di loro penso ovviamente a tutte le altre madri, e no, non solo alle madri ebree o israeliane. Ma a tutti i genitori in lutto, il cui dolore si ripercuote incessantemente in tutto il mondo. Perché a differenza di tutti coloro che vorrebbero che fossimo empatici solo con una parte, una famiglia, un gruppo, un campo o un altro, so che in noi c’è abbastanza forza e, voglio crederci, abbastanza umanità per piangere tutti insieme nn bambini uccisi, vale a dire il nostro futuro comune.

Penso anche questa sera in particolare a una coppia alla quale, anche se sono a migliaia di chilometri di distanza e non possono sentirmi, vorrei mandare un messaggio. Solo poche settimane fa, a Tel Aviv, in una giornata ventosa, ero seduto nel quartiere di Neve Tsedek con Julien e Hélène Weil, i genitori di Sivan. Entrambi hanno fatto il loro aliya dalla Francia decenni fa. Insieme, hanno cresciuto i loro figli in Israele, compreso il figlio nato 20 anni fa. Lo scorso marzo, Sivan, gravemente ferito a Gaza, è morto a causa delle ferite riportate.

Quando ho incontrato Julien e Hélène e mi hanno raccontato la loro storia, non ho potuto fare a meno di sentire crescere dentro di me una strana identificazione. Forse perché, come me, sono partiti per vivere in Israele più di 30 anni fa. Forse anche perché il loro figlio aveva quasi la mia età e stranamente gli somigliava, fisicamente e anche nelle passioni. Resta il fatto che, per modestia o per paura di far pesare il mio dolore sul loro, non ho osato dire loro quanto il nostro incontro mi avesse riportato ad una questione esistenziale e molto personale. Mi scuso per aver avuto la sfacciataggine di parlarvene stasera.

Ho lasciato Israele più di 25 anni fa, subito dopo l’assassinio di Itzhak Rabin. E da quella data non è passato un solo giorno senza che mi ponessi, in un modo o nell’altro, questa assillante domanda: cosa ne sarebbe stato di me se fossi rimasto lì? Come sarebbe la mia vita se avessi scelto di restare in Israele e crescere lì i miei figli?

Di fronte a Julien e Hélène, ho avuto la sensazione che, in un modo particolare, le nostre vite esistessero come specchi l’una dell’altra: erano dove avrei potuto benissimo essere. E viceversa. E il loro immenso lutto sarebbe per sempre anche un po’ il mio.

Perché sappiamo tutti che i nostri destini nella tragedia, ovunque ci troviamo, oggi sono intrecciati insieme. Oggi più che mai siamo connessi, come i libri che condividono così tante pagine e così tanti margini.

Al termine della nostra conversazione, Julien mi spiegò che in memoria di Sivan, le vendemmie erano state imbottigliate, con uno scopo ben preciso: far sì che gli ebrei di tutto il mondo evocassero la sua memoria la sera. di Rosh haShana, al momento di kiddoush. E garantire che tutti i fondi raccolti dalla vendita di queste bottiglie vadano ai feriti di guerra che dovranno ricostruire le loro vite.

Allora ho detto a Julien che, appunto, la parola shakoul ha qualcosa a che fare con la vite e con il segno che il frutto colto lascia su un albero perennemente ferito. Ma lui mi ha risposto una cosa che non sapevo, o meglio a cui non avevo mai pensato. Mi ha detto che un’altra etimologia di shakoul deve essere paragonato in ebraico alla parola sekhel שכל, “intelligenza, spirito”. Un bambino scompare ma qualcosa dell’intelligenza che ha portato in questo mondo rimane lì eternamente.

Sekhelintelligenza. E se questo fosse soprattutto ciò di cui abbiamo bisogno oggi: garantire che l’intelligenza, individuale o collettiva, possa ancora salvarci.

Poco prima che ci separassimo, quando ho chiesto ai genitori di Sivan come il loro dolore avesse cambiato il loro rapporto con Israele, hanno risposto: “Ciò che è diverso ora è che sappiamo che non potremo partire e che non abbandoneremo il luogo dove riposa nostro figlio”.

Sentendoli, mi sono detto che nessuno sa cosa fa un Paese notre Paese. A volte è il luogo in cui siamo nati, a volte è il luogo in cui siamo venuti a vivere. A volte è la terra dove morirono i nostri antenati, ma succede anche che sia la terra dove riposano i nostri figli.

Voglio credere, più che mai, che il nostro Paese non sarà quello dei nostri cimiteri ma quello delle nostre biblioteche. Veniamo da dove si leggono i nostri libri e le nostre storie, da dove le nuove generazioni scriveranno ancora a margine dei libri. E così possiamo credere ancora e ancora nel futuro, piantare viti e, nonostante il dolore del lutto, sentirci dire ancora: Questo Hayim Saluti!

Possa il ricordo di Sivan Weil, Uri Grossman, Hersh Goldberg-Polin e quello di tutti i bambini innocenti che piangiamo essere una benedizione.

Possiate voi e i vostri figli, popolo di Israele e umanità amante della luce, essere pienamente iscritti nel libro della vita.

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