Israele continua a cercare di privatizzare la distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza. Questa missione era finora quella dell’UNWRA, che il Parlamento israeliano ha votato per bandire il suo territorio.
Da quando il parlamento israeliano ha bandito l’UNWRA, l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile dell’aiuto ai rifugiati palestinesi, Israele ha cercato di privatizzare la distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza. Questa decisione, adottata più di un mese fa, solleva molte domande sulle implicazioni etiche e pratiche di una tale iniziativa.
Chi succederà all’UNWRA?
La prima domanda è quali aziende potrebbero intraprendere questo lavoro. Tra le prime a posizionarsi c’è la Global Delivery Company (GDC). “Quando arriva la crisi, GDC è lì per te”, annuncia nella sua clip promozionale. Presentato come capace di fornire aiuti “24 ore su 24, ovunque sul pianeta”, vanta la sua esperienza nei settori della guerra e dei disastri. Motti Kahane, il suo fondatore israelo-americano, aspira a questa missione attingendo ai suoi 14 anni di esperienza negli aiuti umanitari e ad un team di ex militari.
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Motti Kahane precisa: “Ho ex soldati britannici, ex soldati americani, sudafricani, ho curdi che parlano la lingua araba dell’Iraq e della Siria”. Nonostante il suo entusiasmo, l’azienda non è stata ancora scelta da Israele. La competizione è dura e anche un’altra società, la Orbis con sede in Virginia, è in corsa.
Polemica sulla privatizzazione degli aiuti umanitari
Questo utilizzo di società private per la gestione umanitaria non è nuovo. Gli Stati Uniti hanno spesso fatto ricorso al subappalto nelle zone di conflitto, in particolare in Iraq e Afghanistan. I risultati, tuttavia, sono stati “più che contrastanti” secondo alcuni esperti.
Non possiamo fare soldi e lavoro umanitario allo stesso tempo.
Alessandro Monsutti, professore all’Advanced International Studies di Ginevra, spiega: “In Afghanistan, le imprese private non sono state guidate da principi umanitari, di salvaguardia e sostegno delle popolazioni civili, ma da altri valori, che sono legittimi altrove nel mondo privato, che è quello della fare soldi.” Aggiunge che è difficile conciliare umanitario e profitto: “Non possiamo fare soldi ed essere allo stesso tempo umanitario”.
Usa il riconoscimento facciale
Motti Kahane propone un nuovo approccio per Gaza. Ha intenzione di utilizzare il riconoscimento facciale per garantire che l’aiuto raggiunga le persone giuste. I convogli umanitari sarebbero composti da due parti: una prima composta da civili e una seconda da agenti di sicurezza per prevenire i saccheggi. “Questa è la chiave del successo”, afferma, sottolineando l’importanza dell’accettazione da parte della popolazione locale nel reclutamento di partner palestinesi.
Tuttavia, ammette che una presenza militare inappropriata potrebbe suscitare ostilità: “Se arrivi come ex militare in equipaggiamento da combattimento e vai lì, la gente ti attaccherà immediatamente”. Per lui “dobbiamo assolutamente collaborare con la comunità palestinese locale”.
Sospetti su Israele
Nonostante queste proposte, lo scetticismo rimane. La messa al bando dell’UNWRA da parte di Israele è stata in parte motivata dal sospetto di collusione con Hamas.
Pierre Micheletti, presidente della ONG Azione contro la Fame, vede in ciò una palese contraddizione: “Possiamo immaginare per un secondo che domani le casse private potrebbero non avere questo tasso che stimiamo essere stato quello dell’UNWRA di circa dieci persone tra gli 11.000 membri del suo staff, che avrebbero avuto legami documentati con Hamas?”
>> Rileggi l’argomento sul molo di Gaza: Il Gaza Pier è operativo, ma quanti aiuti potrà realmente ricevere?
Presenza dell’UNRWA
In attesa di una soluzione alternativa, è ancora l’UNRWA che tenta di distribuire gli aiuti, nonostante le restrizioni imposte da Israele. La legge approvata a fine ottobre dal Parlamento israeliano prevede un periodo di tre mesi prima dell’effettiva applicazione del divieto.
Sono 43 giorni che non mangiamo pane, perché non c’è farina.
La situazione alimentare a Gaza rimane estremamente precaria. Israele permette l’ingresso di pochissimi camion umanitari, accentuando le difficoltà dei palestinesi. Nahed, uno sfollato palestinese che vive nel sud di Gaza, testimonia questa grave carenza: “Sono passati 43 giorni dall’ultima volta che abbiamo mangiato pane, perché non c’è farina”.
Per ora, Nahed e la sua famiglia sopravvivono come meglio possono. Ma queste testimonianze sottolineano l’urgenza di trovare una soluzione praticabile ed etica per la distribuzione degli aiuti umanitari in questa regione.
Oggetto della radio: Pierre Bavaud
Adattamento web: itg