“Il villaggio martire è sempre quello che viene distrutto dal nemico”

“Il villaggio martire è sempre quello che viene distrutto dal nemico”
“Il villaggio martire è sempre quello che viene distrutto dal nemico”
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La Croce : Il programma di ricerca da voi coordinato sulle rovine della guerra (1) ha recentemente dato origine ad un convegno sui “villaggi martiri”. Cosa significa questa espressione?

Stéphane Michonneau: La Francia, a differenza della Grecia o del Belgio, non ha stabilito criteri precisi né una definizione chiara. Si potrebbe pensare di definire un villaggio martire associando un massacro di massa alla distruzione di edifici. Ma solo alcuni dei villaggi che hanno subito tanta violenza portano questo titolo, mentre altri rimangono nell’ombra. Il villaggio martire è infatti una costruzione culturale e politica.

Ciò che è molto chiaro nel caso di Oradour-sur-Glane, ma anche di Lidice nella Repubblica Ceca, è che un’interpretazione nazionale dell’evento si esprime molto rapidamente, come quella del generale de Gaulle nel marzo 1945, che fece crollare le rovine di Oradour il simbolo della barbarie nazista. Durante la seconda guerra mondiale, ad eccezione forse di Villeneuve-d’Ascq o Vassieux-en-Vercors, è l’unico villaggio a conservare questo luogo nella memoria collettiva. Tuttavia, la divisione Das Reich ne distrusse molte altre, passando da Montauban alla Normandia.

Quando si applica questa espressione?

SM: Già durante la guerra del 1870 ne abbiamo trovato tracce, per designare ad esempio Bazeilles nelle Ardenne. Durante la Prima Guerra Mondiale venne utilizzato anche in Belgio, anche se in Francia si parla più dei “villaggi distrutti” di Verdun. Mi sono occupato anche del caso spagnolo di Belchite, a 40 km da Saragozza, oggetto di scontri tra repubblicani e franchisti e da questi ultimi designato “villaggio martire”. Quando lo riconquistarono, nella primavera del 1938, decisero di mantenerlo in rovina per poi utilizzarlo come cornice di innumerevoli cerimonie fasciste negli anni Quaranta. Difficile quindi dare un’origine precisa, ma l’espressione emerge dalla fine di del XIX secolo in Europa.

Come analizzare la sua connotazione religiosa?

SM: Nello stesso periodo si è verificato un trasferimento molto chiaro dal vocabolario religioso al linguaggio politico. Questo è anche il momento in cui prestiamo particolare attenzione alle rovine. Fino al 1850, la scena di guerra era una gloriosa scena di battaglia, che mostrava generali vittoriosi. La situazione cambiò all’inizio del secolo, come testimoniano le rappresentazioni della guerra di Crimea, della guerra civile americana o delle guerre nazionali italiane: la rovina emerse allora come metafora dei corpi danneggiati.

Con la guerra del 1914 divenne addirittura un tema ossessivo, come ha dimostrato la storica Emmanuelle Danchin. Milioni di cartoline raffigurano, ad esempio, le rovine della cattedrale di Reims. È questo motivo iconico della guerra che incontra il nome già comune di “villaggio martire” a Oradour nel 1944.

Che dire dei luoghi bombardati dagli Alleati, come Saint-Lô?

SM: Il villaggio martire è sempre quello che viene distrutto dal nemico, quindi non usiamo questa espressione per le città bombardate dagli Alleati, come nel caso di Saint-Lô. E per lo stesso motivo non tratteremo le rovine allo stesso modo. A Saint-Lô, si assiste addirittura ad uno sforzo di ricostruzione molto notevole che cancella le tracce della guerra, ad eccezione di una porta di prigione di fronte al municipio e alla cattedrale, dove si sovrappone all’edificio moderno, senza nascondere la cicatrice ma integrando il rovine.

Nel contesto dei bombardamenti alleati, la rovina non può diventare il supporto della memoria. A differenza della Prima Guerra Mondiale, dove ad esempio la ricostruzione della cattedrale di Reims suscitò molti dibattiti, nel 1945 in Normandia non fu così. A Le Havre le rovine addirittura scomparvero completamente. Il nostro obiettivo è eliminare le macerie e i detriti il ​​più rapidamente possibile o riutilizzarli. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in Francia non vi fu alcuna chiara volontà di preservare queste vestigia belliche.

È così ovunque in Europa?

SM: Nel Regno Unito, al contrario, spicca la figura della cattedrale di Coventry, con la ricostruzione di un nuovo edificio accostato alle rovine e la “croce di chiodi”, ricavata da quelle della struttura bombardata. È un’interpretazione molto cristiana, basata sul dittico distruzione/resurrezione che si è espresso anche nel Nord Europa e in Germania.

La popolazione a volte ha usi commemorativi che differiscono dal discorso ufficiale?

SM: Sì, questo è particolarmente vero a Oradour. Gli oggetti recuperati dalle rovine, attualmente oggetto di una mostra al Centro della Memoria, cristallizzano ricordi di famiglia. Sono stati tramandati di generazione in generazione, come questi famosi pezzi della campana fusa recuperati dalla chiesa e tagliati in due ad ogni eredità. E a Oradour, questi ricordi familiari erano spesso contrari alle politiche ufficiali sulla memoria.

Quando inizia il turismo di guerra?

SM: Questo è un altro uso delle rovine, che nasce dagli usi memoriali. Questo turismo esisteva molto presto, subito dopo la guerra, a Oradour come in Normandia. Ma a partire dagli anni ’80 è cresciuto in misura fenomenale, poiché rappresenta un’opportunità per lo sviluppo locale. Al Nord, ad esempio, i ruderi dimenticati durante il periodo dei Trente Glorieuses sono oggi oggetto di un turismo estremamente intenso.

In Normandia, il turismo si concentra attorno alle spiagge del D-Day. Sono gli edifici situati sulla costa ad accogliere il maggior numero di visitatori, come la Pointe du Hoc o la batteria di Longues-sur-Mer, mentre le città dell’interno, massicciamente distrutte, sono evitate dai turisti. Sulla costa, i paesi che avevano un’importante tradizione balneare prima della guerra non vollero valorizzare le rovine, mentre gli altri fecero dei resti dello Sbarco una risorsa.

Perché questa fruizione turistica si è intensificata negli anni ’80?

SM: Lo storico Pierre Nora ha analizzato questo capovolgimento nel rapporto dei francesi con il passato e il loro gusto per la memoria, le vestigia, i musei, la genealogia o il patrimonio – il governo ha dichiarato l’anno 1980 “anno del patrimonio”. Secondo lui, questo ritorno alle radici avviene in un momento in cui la Francia entra in un’era industriale e urbana e in cui i legami con il mondo rurale sono definitivamente interrotti. Come se ritrovassi un paese perduto.

La riscoperta delle vestigia belliche è anche l’effetto di un’inversione culturale avvenuta in questi stessi anni: il passaggio da una lettura resistenziale ed eroica della Seconda Guerra Mondiale a una lettura vittimistica. Le persone diventano sensibili a una storia che non è più principalmente quella di soldati straordinari, ma di vittime civili. Un interesse cui ha risposto la visita del presidente a Saint-Lô, riconoscimento nazionale di questa memoria dei bombardamenti molto presente nelle famiglie.

(1) Il programma ROVINE. Usi politici e sociali delle rovine della guerra (XVI-XXI secolo), realizzati dal MESHS (Casa europea delle scienze umane e sociali, Lille) e dall’IRHiS (Istituto per la ricerca storica del Nord).

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