“La Vestale”: una distopia contemporanea all’Opéra Bastille

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L’opera di Gaspare Spontini, “La Vestale”, torna all’Opera di Parigi dopo 150 anni di assenza. Lo splendore musicale e l’estetica neoclassica della partitura sono ancora di gran moda, serviti dalla direzione orchestrale del direttore d’orchestra Bertrand de Billy, cori potenti e un cast solido dove trionfa il tenore americano Michael Spyres. La regia di Lydia Steier, che colloca questa tragica storia d’amore in una distopia militare-religiosa contemporanea dominata dalla violenza maschile, è a dir poco discutibile.

Amore proibito

©Guergana-Damianova-OnP

Nell’antica Roma, Giulia, una vestale, per la quale è vietata ogni relazione sentimentale, intrattiene una relazione con Licinio, un eroe guerriero. Entrambi si innamorarono, ma la loro relazione fu presto denunciata e la giovane fu condannata dal sovrano pontefice, garante dell’ordine divino, ad essere murata viva. Fortunatamente, un simile Deus ex machina, il fuoco del focolare divino, che avrebbe dovuto assicurare la pace e la vittoria di Roma, si riaccende per miracolo e i due amanti possono incontrarsi nuovamente. Perché le vestali tornarono di moda alla fine del XVIII secolo, dal momento che Spontini creò la sua opera nel 1807, mentre viveva a Parigi sotto la speciale protezione dell’imperatrice Giuseppina, moglie di Napoleone? Queste giovani sacerdotesse venivano scelte quando erano ancora bambine e dovevano fare voto di castità per trent’anni. Erano responsabili del mantenimento del fuoco sacro venerato da Vesta, una delle principali dee vergini insieme ad Atena e Diana. In cambio avevano diritti e proprietà, ma in cambio dovevano garantire la sostenibilità e la vittoria di Roma. Nel I secolo aC Licinio, uno dei più potenti cittadini romani, si innamorò di Licinia, una vestale. Questo scandalo servì da argomento al librettista Etienne de Jouy, che offrì a Licinio, in omaggio all’eroismo guerriero di Napoleone, una sontuosa miscela di tolleranza, umanità e rispetto per l’autorità politica e religiosa.

Distopia contemporanea

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La regista Lydia Steier era alla ricerca di una trasposizione rilevante per evocare il sacrificio di queste giovani donne devote all’armonia di un mondo dominato dal potere maschile. L’Ancella Scarlatta, un romanzo distopico di Margaret Atwood (1985), traspone la società americana nell’Iran del 1979, all’epoca della svolta verso il fanatismo religioso, con le donne ridotte al rango di schiave che devono garantire la riproduzione, sotto la supervisione di un maschio dittatoriale e assetato di sangue milizie. Il problema non è ridimensionare, attualizzare una storia antica che allo spettatore contemporaneo può apparire lontanissima. Perché no ? Ma la messa in scena qui sembra avere poco riguardo per la semplicità della storia umana e, fin dall’inizio dello spettacolo, inserisce elementi visivi di terrificante violenza che parassitano la comprensione stessa della narrazione. Così, mentre si prepara il banchetto trionfale che corona le sue imprese guerresche, Licinio langue come un condannato, rannicchiato contro gli alti muri di cemento dove sono sospesi per i piedi i condannati a morte. Il sangue è presente su tutti i corpi e assistiamo alla consegna di cadaveri insanguinati da parte di carri successivi. La storia si svolge quindi in una dittatura dove i soldati vestiti tutti di nero sembrano nazisti, dove la casa di Vesta diventa il ricettacolo di un gigantesco rogo di libri nel quale vengono gettati a dozzine di libri. Il foro romano diventa la rotonda della Sorbona, un centro di cultura consegnato qui alla barbarie totalitaria e all’annientamento della conoscenza culturale. Il fanatismo religioso trova nei cori un appoggio fanatizzato dal puritanesimo dei cittadini col cappello come i mormoni. E ciliegina sulla torta, Cinna, la migliore amica di Licinio, finisce per prendere il suo posto sparando a tutti gli avversari.

Potenza dell’orchestra e delle voci

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È il soprano Elodie Hache, una potente tragica, ad assumere qui il ruolo di Julia che doveva essere interpretato da Elza van den Heever, malata durante la prima. Con coraggio e valore, l’esecutore si infila negli abiti e nelle fasce opprimenti della Vestale, potenza degli acuti e calore del timbro, emozione al limite, padronanza di una partitura che qui assume la forma di sfida vocale e scenica, da che riesce a portare a termine con grande impegno. Ève-Maud Hubeaux assume il personaggio della Grande Vestale con la maestria drammatica e la precisione vocale che le conosciamo, prestando alla sacerdotessa il sadismo sulfureo e la violenza richiesti dalla messa in scena. Un sadismo non privo di omosessualità quello che si manifesta nei confronti di Giulia, e che le altre vestali trasformano in disprezzo e sputi. Di fronte a lei imperversa la fragile autorità di Jean Teitgen nel ruolo di Sovrano Pontefice. Il suo tono basso, la sua dizione perfetta e la serietà della sua incarnazione, di notevole sobrietà, ottengono il consenso. Allo stesso modo, Julien Behr, con i capelli biondo ossigenato come quelli di Donald Trump, interpreta il ruolo di Cinna, la migliore amica di Licinio, con grande presenza, anche se la voce a volte manca di sicurezza e proiezione. Nel ruolo di Licinio, il tenore Michael Spyres è magnifico, la voce chiara e proiettata, la dizione francese sciolta e notevole, l’incarnazione drammatica dell’accuratezza cinematografica. Tutto questo con notevole fluidità e semplicità. Sotto la direzione attenta e corretta di Bertrand de Billy, con gli eccellenti musicisti dell’Orchestra dell’Opera di Parigi, i cori diretti da Ching-Lien Wu si dispiegano con eleganza, senza tradire una partitura neoclassica ma con accenti rivoluzionari.

Helene Kuttner




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