“Les Paravents” all’Odéon: sublimare i morti e gli emarginati della terra

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In uno spettacolo magnifico, Arthur Nauzyciel rende omaggio all’opera scandalosa di Jean Genet, creata sessant’anni fa. Per incarnare quattro ore di intenso spettacolo che ci trasportano sulle montagne russe, tra inferno e paradiso, in un paese colonizzato di cui non dice il nome, sedici attori di tutte le generazioni interpretano una cinquantina di personaggi su una gigantesca scala che prende anche la forma di una tomba. Spettacolare e suggestivo.

Una danza di fantasmi

Ma chi è questo personaggio, leggero come una piuma che danza nel vento, che ride del pubblico in una risata immensa, con lo sguardo dritto e febbrile, le gambe agili di un glorioso funambolo sulla cima di una montagna? Ecco Saïd, interpretato da Aymen Bouchou, un giovane bohémien e miserabile delinquente che ha sperimentato la prigione, il corpo agile e la mente agile, sposato con Leila, la ragazza più brutta del quartiere, la sua ombra malvagia. Hinda Abdelaoui, con la testa incappucciata e il corpo attorcigliato negli stracci sotto i quali nasconde i suoi piccoli furti, sembra strisciare come un paria, somigliante a un porcellino di terra, in fondo alla gigantesca scalinata di biancore abbagliante, in un mondo che non permette alle persone per entrare nella luce del giorno. Tra i due, il cattivo ragazzo, magnifico eroe, e Leila, la feccia della terra, appare la madre di Saïd, progenitrice senza età ma dalla lingua tagliente, che irrompe grazie alla spettacolare composizione di Marie-Sophie Ferdane, il cui grande corpo sudicio, contorto dal dolore e dalla i capelli dicono tutto della follia e della sfortuna del mondo.

Interpreti toccanti

©Philippe-Chancel-

Per interpretare questi personaggi, circa un centinaio nella versione originale, portatori di un linguaggio poetico e crudo allo stesso tempo, in costante navigazione tra l’ordinario e la finzione, l’incubo e il sogno, occorrono interpreti dotati di energia e dalla forte forza drammatica. Arthur Nauziciel, il regista, e Damien Jallet, il coreografo, hanno scelto giudiziosamente di farli apparire in piena luce, di fronte al pubblico, e scendendo l’ampia scalinata con gradini monumentali. L’effetto è quello di un music hall scricchiolante, dal quale sono del tutto assenti i famosi “Schermi”, da cui prende il nome il brano. Sono passati sessant’anni dalla scandalosa creazione dell’opera teatrale di Roger Blin al Théâtre de l’Odéon, diretta all’epoca da Jean-Louis Barrault, sotto la direzione di André Malraux, allora ministro della Cultura. Maria Casarès, Madeleine Renaud, Jean-Louis Barrault, allora attori della commedia del 1966, furono come altri violentemente aggrediti e molestati in vaste risse, in teatro e fuori. Le esibizioni continuarono in compagnia della polizia. L’estrema destra ha visto questa creazione come un’oscenità e un insulto all’esercito francese, quattro anni dopo l’indipendenza dell’Algeria.

Un’epopea dai vivi ai morti

©Philippe-Chancel-

“Non ho mai copiato la vita” ha dichiarato Jean Genet in un’intervista. La famiglia Orties che l’autore ci mostra in questa epopea dantesca è sia Machiavelli per la sua crudeltà, sia Rimbaud e Claudel per la maestosità dello stile con le sue immagini contrastanti e paradossali. La scala bianca, sulla quale i personaggi stanno, scivolano e ruzzolano, pone la scena in verticale, riflettendo la società coloniale vigente all’epoca. Mounir Margoum, Xavier Gallais, Catherine Vuillez, fedeli compagni del regista, accompagnano oggi artisti più anziani, come Hammou Graïa o Farida Rahouadj, che hanno partecipato alle produzioni di Patrice Chéreau, ma anche attori molto giovani del Conservatorio Nazionale e della scuola TNB. Tutti pieni di energia, luminosi e impegnati, portano alto questo testo che conserva ancora oggi tutta la sua ironia e il suo umorismo. Soldati vinti dalla violenza, in Patauga rosa, prostitute organizzate, notabili e missionari erranti e tubanti, legionari morti o resuscitati, popolano la scalinata come fantasmi carnali pieni di vita e lasciano la loro impronta sui gradini della scalinata come su una livida pergamena. Le ombre dei filmati delle parate militari durante la guerra d’Algeria si incrostano sulle pieghe dei gradini, prima che tutti i personaggi scompaiano dall’altra parte dello specchio durante l’epilogo che evoca i morti, corpi proiettati in uno slancio maestoso e finale in cima allo scalone d’onore. La vita, la povertà, l’esclusione, il disprezzo, ma anche la poesia e il respiro epico del teatro venivano trasmessi in questo spettacolo, i cui echi politici risuonano chiari ancora oggi.

Helene Kuttner

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