– Mamco lavora dalla memoria prima che dal lavoro
Scelti dal pubblico dalla collezione, 300 pezzi compongono un allestimento partecipativo e dipingono un ritratto allegro del museo, inaugurato nel 1994.
Pubblicato: 04.10.2024, 11:46
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- Il Mamco sta organizzando una mostra partecipativa prima della sua chiusura nel 2025.
- Trecento opere selezionate dal pubblico sono in mostra fino al 22 dicembre.
- L’esposizione presenta vari artisti, inclusi i fedelissimi del museo.
- Celebra i 30 anni di esistenza del Mamco, inaugurato nel 1994.
Questo è uno scontro che rende chiaramente felice Julien Fronsacq. Perché richiedeva una buona dose di ingegno, inventiva e umorismo da parte del curatore capo e del team del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea per mettere insieme “Il Mamco, dalla memoria”. Sulla base delle scelte effettuate dal pubblico tra le opere della collezione, la brigata curatoriale ha cercato di comporre, con pezzi disparati, una sorta di gigantesco puzzle, utilizzando l’intero spazio espositivo come parco giochi.
Trecento creazioni, delle circa 6.000 presenti nelle riserve, occupano l’istituzione dal pavimento al soffitto, in una proposta abbondante e divertente che sarà l’ultima prima della chiusura dell’edificio nel 2025 almeno per tre anni di ristrutturazione. È stato grazie a un sondaggio inviato via email all’inizio dell’anno che sono arrivati ai Picture Rails: questo messaggio invitava gli amatori a eleggere la loro opera preferita attingendo dal catalogo online. Alla chiusura delle votazioni di aprile sono stati espressi circa 1.000 voti.
Coerenza magmatica
“A un certo punto, abbiamo guardato il risultato e Lionel (n.d.r.: Lionel Bovier, direttore del museo) mi ha saggiamente consigliato di vedere se tutto poteva andare bene, sorride Julien Fronsacq. Ci siamo fermati lì!” Vengono presentati tutti i brani richiesti, tranne due, uno attualmente in prestito e l’altro risultato troppo imponente. Poi si è trattato di articolare coerentemente questo magma.
“Ho preso l’elenco delle opere e ho ritagliato le vignette”, spiega il coordinatore di questa mostra partecipativa. Poi, per un giorno, abbiamo giocato alla casa delle bambole per decidere cosa sarebbe andato e dove”. L’esercizio è stato accompagnato da domande spinose: c’era bisogno di un percorso cronologico, di confronti formali, di ripercorrere le principali vicende storiografiche, di assemblare le acquisizioni attraverso la dialettica o l’analogia? O no?
“Alla fine abbiamo fatto un po’ di tutto questo”, continua. La nostra collezione non è né quella di MoMA (Museo d’Arte Moderna di New York) ni celle du Centro Pompidou: le sue dimensioni non permettono di dedicare uno spazio ad ogni movimento. Tuttavia alcuni pezzi sono capolavori degni di grandi musei”. Anche la questione dell’importanza o meno di questo o quel lavoro ha suscitato vivaci dibattiti tra i membri del team: “A volte non eravamo affatto d’accordo tra noi”.
L’allestimento delle sale è stato distribuito secondo le affinità e le competenze di ciascun curatore e curatrice, e alcuni dipinti e installazioni sono stati bypassati fino all’ultimo momento. Ciò che emerge da questa riflessione congiunta è una sorta di ritratto vuoto di Mamco, necessariamente un po’ eterogeneo visto il protocollo applicato, ma riuscito e dotato, per la sua concezione plurale, di un “effetto corale piuttosto cool”, come sottolinea Julien Fronsacq.
La mostra offre l’opportunità di abbracciare la storia di un’istituzione sempre in movimento, che quest’anno celebra i suoi 30 anni di esistenza – di cui due decenni sotto la guida di Christian Bernard e uno sotto la guida di Lionel Bovier. Inaugurato nel 1994 con poche decine di opere riunite dall’Amam (Associazione per un Museo d’Arte Moderna), il Mamco ha costruito nel tempo un corpus singolare che spazia dagli anni Cinquanta a oggi, mai dettato dalle mode, e interessato , in particolare dal 2016, nelle zone cieche della storia dell’arte.
Fedeli artisti ginevrini
Caratteristiche che ritroviamo sfogliando “From Memory”, durante il quale (ri)incontriamo Franz Erhard Walther con il suo “1. Werksatz” (1963-1969), composto da elementi tessili da attivare, l’artista visivo di origine pakistana Rasheed Araeenresidente a Zurigo Verena Loewensbergtematizzando la questione della griglia, ovvero i rappresentanti della Pictures Generation, dal nome di questo gruppo di artisti che hanno fatto dell’appropriazione e della rifabbricazione di immagini esistenti la loro specialità e di cui il Mamco possiede un numero significativo di pezzi.
Ci fa piacere vedere ricomparire il “Riverrun” (1994-2013) dello scultore americano Richard Nonas, che stende a terra una voluta di 37 barre d’acciaio, il “Bureau d’activities implicites” (2003) di Tatiana Trouvé , l’installazione circolare composta da dadi di legno colorati di Robert Filliou, gli schermi a raggi catodici decadenti di Nam June Paik, pioniere sudcoreano della video arte, o il divertente campo di lattuga in schiuma poliuretanica verniciata disegnato da Piero Gilardi. Ci sono anche i ginevrini fedeli a queste mura, piace John Armleder, Fabrice Gygi, Sylvie Fleury, Carmen Perrin O Christian Robert-Tissot – con la notevole eccezione di Mai-Gio Perret.
Accanto a creazioni del tutto sconosciute – una “Piramide” (1972-1975) di Gianfredo Camesi, richiesta tramite mail seguente l’articolo del “Ginevra Tribune” che ha annunciato questa mostra a febbraio – i visitatori potranno apprezzare alcuni elementi essenziali del catalogo, come le due stelle della mostra che sono “Habibi” (2003), un colossale scheletro galleggiante di Adel Abdessemed, e “La Forêt” (1998) di Xavier Veilhan, attraverso i tronchi di feltro e nell’oscurità ovattata di cui grandi e piccini adoreranno vagare.
Fino al 22 dicembre (almeno) al Mamco, 10, rue des Vieux-Grenadiers. Mar-ven 12:00-18:00, sab-dom 11:00-18:00
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