Con “The Bikeriders”, Jeff Nichols filma una corsa sfrenata nella terra dei “bikers”

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Benny (Austin Butler) in “The Bikeriders”, di Jeff Nichols. IMMAGINI UNIVERSALI

L’OPINIONE DEL “MONDO” – DA VEDERE

Jeff Nichols, 45 anni, è autore di sei lungometraggi realizzati in sedici anni di carriera in una notevole varietà di generi – dal western al western Fucile Storie (2007) al film sui motociclisti I motociclistiattraverso il thriller paranoico Mettersi al riparo (2012) o il melodramma amandoG (2016). Dimostrano una coerenza oscura e affascinante. Due domande essenziali sembrano tormentare Nichols. Primo: finirà per accadere il peggio, che nei suoi film fa sempre mostra di sé? Allora, il personaggio profetico, la cui vocazione è prevederlo o prefigurarlo, e che generalmente si rivela a metà tra l’angelismo e la follia, sarà colui attraverso il quale esso arriverà?

Una certa follia escatologica tipicamente americana, dove il bene e il male si rivelano due facce della stessa medaglia, trova così echi inquietanti nella sua opera, che si potrebbe definire neoclassica. I motociclisti, che si confronta con l’immensa mitologia della strada e delle bande americane, si trova a sua volta in questa purezza e si rifugia, come i più recenti film d’autore americani, nel passato. La storia, ambientata negli anni ’60, di un club del Midwest chiamato The Vandals. Johnny (Tom Hardy), il suo capo, un bruto amichevole, l’ha fondata con alcuni amici. Tra loro c’erano Benny (Austin Butler), una testa calda dalla bellezza devastante, la sua ragazza, Kathy (Jodie Comer), una bella mora pazza del suo bel amante, e Zipco (Michael Shannon), un alcolizzato e ferocemente anticomunista.

Pregiudizio narrativo originale

Ispirato da un libro fotografico di Danny Lyon, figura del nuovo giornalismo che trascorse quattro anni con una banda di motociclisti, il film sembra a sua volta voler fissare, in primo luogo, l’immaginario di motociclisti, da noi altrimenti conosciute come “giacche nere”. Pelle e ronzio di motori su tutti i piani. Strade diritte che delineano orizzonti di uomini e macchine. Utopia dell’amicizia virile e della riconquista della libertà primitiva. Combattimenti su tutti i piani. Bar fumoso e cadaveri di bottiglie di birra. Però ha tutto un odore un po’ riscaldato. Allo stesso tempo, Jeff Nichols cerca di rendere il suo punto più complesso.

Innanzitutto attraverso un originale taglio narrativo, che dipana il film al passato a partire da una lunga intervista tra il giornalista Danny Lyon (Mike Faist) e Kathy, personaggio femminile attraverso il quale viene raccontata l’assurdità della violenza maschile, lasciando subito intravedere la tragedia che colpirà i personaggi. Poi attraverso uno sviluppo drammaturgico, che sposta gradualmente la storia verso la stessa tragedia man mano che il club ammette nuove reclute, giovani senza legge o soldati sconvolti di ritorno dal Vietnam. È deplorevole che nessuno di questi percorsi contribuisca a elevare il film all’altezza a cui aspira. Dal dialogo tra Lyon e Kathy non emerge nulla di proprio, sia in termini di emozione tra i personaggi che di documentata intelligenza della storia. Appare quindi subito come un punto della trama destinato, a un costo troppo basso, a promuovere un ” sguardo femminile » (“sguardo femminile”) su questa epopea del testosterone.

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