Shereen Mahhouk, regina delle icone – Libération

Shereen Mahhouk, regina delle icone – Libération
Shereen Mahhouk, regina delle icone – Libération
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“Vedrai, Libeil tempo vola”, le piaceva ripetere, con occhio malizioso, evidenziato con il kohl, a ogni nuova recluta del giornale. Lei aveva ragione. Pilastro del dipartimento fotografico per quasi vent’anni, regina dell’iconografia, Shereen Mahhouk ha lasciato il segno sui giornali con la sua giocosità, il suo look insolito, le sue volute di sigarette al mentolo e i suoi outfit leopardati. È morta improvvisamente in Marocco, nella notte tra martedì 30 aprile e mercoledì 1 maggio.

A Shereen piaceva ricaricare le batterie a Taroudant dove senza dubbio ritrovava un po’ delle sue origini orientali. Shereen era bella ed elegante, come una principessa persiana in miniatura, anche in tuta che abbinava volentieri a décolleté col tacco… senza dimenticare il suo scooter con cui si muoveva, da precursore, dagli anni 2000 Soprattutto lei era divertente, si prendevano in giro a vicenda e se stessa, esigendola sempre “caffè con un pentolino di latte a parte”, osservando la testa decomposta del cameriere.

Figlia unica, era pronipote di Baha-Allah, fondatore della fede Baha’i a favore dell’unità spirituale dell’umanità, religione monoteista nata nel XIX secolo. La sua famiglia palestinese, originaria di Haifa, è dovuta fuggire in Libano. Sua madre, Maliheh Afnan, palestinese di origine persiana, vicina a Edward Saïd, era una pittrice riconosciuta, attualmente esposta in “Présences Arabes” al Museo d’Arte Moderna della città di Parigi. Suo padre, siriano, economista, lavorava al Fondo monetario internazionale a New York.

“Il mondo intorno stava svanendo”

Shereen Mahhouk è nata nel 1965 in Libano ed è cresciuta a Beirut. La guerra la spinge all’esilio nel 1974. Arriva in Francia, a Parigi, dove vive un cambiamento totale di scenario in una severa scuola privata, dove farà i 400 movimenti. Formatasi in letteratura alla Sorbona, inizia la sua carriera come iconografa presso la rivista Mondo. Poi Laurent Abadjian l’ha reclutata nel dipartimento fotografico di Pubblicazione grazie ad a “lettera scritta a mano breve e convincente” : “L’ho scelta per la sua grande cultura e la sua padronanza delle lingue straniere. Nella stessa frase parlava inglese, farsi e francese. Era luminosa e filosofica, ermetica alle tensioni, di mentalità molto aperta, un profilo atipico e arricchente. Iscritto nel 1996 Rilasciato, si affermò come iconografa distinta, acuta, esigente e tenace, mai consensuale. “È fastidioso!” spesso criticava, in modo franco e sincero, le immagini troppo fluide o troppo previste.

“Aveva un modo molto personale di guardare il suo interlocutore: ti guardava negli occhi e ti toccava il braccio. Il mondo intorno a me svanì e io me ne andai ancora convinto della sua idea per l’imminente servizio fotografico. ricorda il fotografo Olivier Roller. Le piacevano i fotografi impegnati, profondi, quelli che rischiavano e, soprattutto, erano bravi. “Come fotografi, siamo rimasti delusi se non era pieno. Se Shereen non ha visto nessun punto nelle tue foto, è perché al nostro report mancava una dimensione, riferisce Jérôme Bonnet. È stata sempre libera, giusta nelle sue scelte, molto lontana dall’illustrazione ma ha sempre rispettato la scelta finale del fotografo. Rappresenta la quintessenza di Libe di un’epoca con persone provenienti da contesti diversi e personalità forti”.

Nonostante il suo aspetto a volte stravagante, era tanto metodica quanto ordinata nel suo lavoro. A volte Shereen ha rischiato, difendendo una foto con le unghie e con i denti, affidandosi alla sua visione parziale e originale, convinta che fosse necessario allontanarsi da una percezione ristretta dell’immagine. Non era quello il paese di cui parlava l’articolo? Argomento sbagliato e data non giusta? “Sì, forse, ma non è lontano e la foto è davvero bella!” rispondeva ai suoi increduli interlocutori. E perché non potremmo mostrare le spalle delle persone nei ritratti?

Cyril Koeppel, all’epoca giovanissimo membro della redazione di Pubblicazione, regolarmente sulle pagine economiche – “soggetto così antiestetico” –ricorda il vero “giostre verbali” con Shereen al quale ha cercato di intavolare la crisi del debito sovrano o il crollo di Lehman Brothers: “Va bene, beh, sono soldi” concluse definitivamente. “Per un redattore costantemente nell’ansia che arrivi una notizia e gli porti via tutto senza preavviso, la sua vistosa assenza di stress anche al momento della chiusura”, lo impressionava sempre, se non lo rassicurava del tutto.

Diamante grezzo, fragile e potente

Affascinata dalla psiche umana, attenta agli altri, aveva una particolare sensibilità per i destini infranti, una tenerezza per le esistenze marginali. In tarda età, coraggiosa e appassionata, studiò psicologia. Poi si sono verificati spostamenti nei servizi specializzati pur continuando occasionalmente l’iconografia per gli echi O Télérama. La sua salute era fragile. Un giorno, uno dei suoi tanti medici – aveva una rubrica di medici alternativi – le suggerì di lavorare sul suo ancoraggio per rimetterla a fuoco. Inizialmente ha rifiutato la proposta. Poi accettò, ma a condizione che non lo fosse “troppo vicino alla Terra e al suolo”. Shereen Mahhouk ha un’amata figlia, Dilan, con il fotografo Antoine d’Agata.

Noi, che abbiamo lavorato con lei e che non potremo mai dimenticarla, siamo devastati da questa tragica notizia. Porteremo sempre un po’ di Shereen dentro di noi, questa ragazza leggermente appollaiata, questo diamante grezzo, fragile e potente. Restano soprattutto le risatine, questo modo disinvolto di accogliere la vita per non far vedere che è così preziosa e la parola “washi-washa” che usava sempre. In caso di colpo duro, diceva anche, fatalisticamente, con molta classe, “la vita è una stronzata”, prima di aggiungere con un sorriso: “E poi muori.”

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