la 60esima edizione della Biennale d’Arte di Venezia

la 60esima edizione della Biennale d’Arte di Venezia
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Con più di 300 artisti e 90 padiglioni nazionali, la Biennale d’Arte di Venezia ha aperto il 20 aprile. In programma un posizionamento politico con la missione di invertire i poli di influenza

Agli anni ’60th edizione della Biennale d’Arte di Venezia, non avremo visto un’esplosione come Rauschenberg il cui Leone d’Oro, vinto nel 1964, scosse il mondo dell’arte ribaltando le due polarità che erano Europa e Stati Uniti, dando a questi ultimi un primo sguardo. Si trattava però in qualche modo anche di invertire le polarità per mettere in luce il “Sud del mondo” specchio dell’egemonico eurocentrismo della conoscenza, nella prospettiva degli studi decoloniali, qui incarnati dal brasiliano Adriano Pedrosa, primo curatore nella storia del la manifestazione dell’emisfero meridionale. Direttore artistico del Museo d’Arte di San Paolo, è particolarmente rinomato per le sue mostre che affrontano temi a lungo esclusi dal campo dell’arte contemporanea tradizionale ma che hanno avuto ampia diffusione negli ultimi anni all’interno delle istituzioni, vale a dire le questioni di genere o il riconoscimento delle minoranze. Dichiarandosi queer e proveniente da un’America Latina molto militante riguardo alle riflessioni sulla nozione di decolonialità, Pedrosa deve fare i conti con il nuovo direttore della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, un personaggio pittoresco, etichettato con l’estrema destra italiana da Giorgia Meloni e convertito all’Islam sciita. Un’alleanza difficilmente immaginabile, eppure oggi sembra che la nozione di inclusività possa abbracciare tutto, il che a volte può essere preoccupante. La Documenta de Cassel nel 2022 – altro evento di punta dell’arte contemporanea internazionale – aveva già declinato l’idea di geografie periferiche sottorappresentate invitando un collettivo di artisti indonesiani a organizzarne la curatela – purtroppo funestata da un affresco di antisemitismo che ha screditato l’evento. A Venezia, città del mondo, porta d’Oriente dove la diffusione dei saperi e delle arti segue da secoli i vivaci vortici del Canal Grande sotto lo sguardo brillante di Tiziano e Tintoretto, la mostra principale, composta da più di 300 artisti, afferma una posizione chiara sotto il titolo “Foreigners Everywhere”: quella di mostrare l’invisibile, le minoranze, i fenomeni migratori e le geografie ai margini attraverso produzioni artistiche per lo più non europee e sostenendo storie etniche e indigene, i cartelli declinano costantemente i nomi di artisti sconosciuti specificando la loro primissima mostra alla Biennale. Questo grande incrocio mostra tuttavia figure celebrate dalle potenti istituzioni occidentali (che i cartelli, pur molto dettagliati, non menzionano), come l’artista filippina emigrata negli Stati Uniti Pacita Abad (morta nel 2004), attualmente esposta al MoMA PS1 a New York, il brasiliano Dalton Paula i cui vibranti ritratti sono già entrati nelle collezioni di diversi musei americani o il pakistano con sede negli Stati Uniti Salman Tour i cui dipinti immersi nel verde possono essere ammirati in questo momento alla Fondazione Pinault di Parigi. Accanto a loro, personaggi più inaspettati o sconosciuti come la libanese di base a Londra Nour Jaouda e le sue impressionanti strisce tessili o Santiago Yahuarcani, che rivelano le mitologie dell’Amazzonia peruviana. Qui l’origine e l’identità hanno la precedenza, il che mette in discussione i fondamenti della scelta delle opere riguardo a considerazioni sociali e politiche. “Ci sono così tante cose sulle minoranze dimenticate e sulla colonizzazione che le questioni del mondo di oggi sono completamente cadute nel dimenticatoio: l’ecologia, le minacce di guerra e di guerra in Ucraina, la fragilità delle democrazie…”, mi ha detto un gallerista ai Giardini. Parlare di guerra, di ascesa dell’estremismo, di fine della democrazia potrebbe ostacolare il discorso identitario portato avanti? Inoltre, il mondo dell’arte contemporanea ha camminato fin dal primo giorno su un tappeto rosso di volantini “No alla morte a Venezia – No al Padiglione del Genocidio” sparsi per terra da attivisti filo-palestinesi venuti a manifestare la mattina al grido di “Viva Palestina! » senza che questo ostacoli lo svolgimento dell’evento, le cui innumerevoli opere colorite o legate a storie intime e queer sembravano poi scollegate dalla scottante notizia. Da parte sua, il Padiglione israeliano, già attaccato da una petizione che ne chiedeva il boicottaggio, ha preferito restare chiuso, sotto stretta sorveglianza della polizia, finché “non fosse concluso un accordo sul cessate il fuoco e sulla liberazione degli ostaggi”. “Leggeva un cartello sulla sua porta. Un curatore deplora, a sua volta, “l’eccesso di composizioni di minoranze etniche e le masse sulla revisione della storia coloniale” che portano ad una massa di “cose che sono troppo simili”. Nel complesso, il ricco percorso, nonostante qualche bella sorpresa – come la sala sulle modernità marocchine, libanesi, iraniane o brasiliane nel Padiglione centrale dei Giardini – offre un panorama discontinuo. Un po’ smarriti, Picabia e De Pisis sembrano lì giusto per giustificare una storicità che non è lo scopo della mostra. Il tema decoloniale e identitario prosegue nei padiglioni nazionali, quello degli Stati Uniti, coloratissimo, che presenta l’artista queer Jeffrey Gibson, membro della comunità Chocaw e di origine Cherokee, quello del Regno Unito che mette in risalto i video del ghanese John Akomfrah che esplorano le storie della decolonizzazione tra finzione e memoria collettiva o quella della Francia con Julien Creuzet, primo rappresentante dei Caraibi, con una proposta che vuole essere un’immersione acquatica nelle vestigia della schiavitù. Sculture dalle curve semplici, sullo sfondo di video dallo stile vicino all’animazione vivace, che evocano le fragili sospensioni di Annette Messager. Abbiamo apprezzato l’ingresso in corsa dei padiglioni di Etiopia, Tanzania, Timor Est e Benin e ci è piaciuta la nostalgia pittorica postindustriale del padiglione rumeno, le grida agghiaccianti delle bombe russe dal padiglione polacco, l’acqueo puntinismo di quello senegalese Pavilion e l’opera filmata del Padiglione Egizio con la sua magistrale coreografia pensata per rivisitare l’episodio storico della rivoluzione di Urabi che cercò di porre fine all’influenza coloniale degli inglesi e dei francesi. Tuttavia, come sottolinea il critico del New York Times Jason Farago a proposito della retorica del “Sud globale”: “Un movimento essenzialmente emancipativo e anticoloniale contro l’egemonia unipolare sta prendendo forma nei paesi e nelle società più diverse” – ha fatto qualcuno alla Venezia 2024 La Biennale lo dice? No, era Vladimir Putin”. Ciò lascia meravigliarsi… Conclusione: se la scelta guidata dall’origine, dall’etnia o dall’identità serve cause politiche e militanti al servizio di un discorso di rivalorizzazione dell’identità, non costituisce necessariamente arte. E nella cornice della Serenissima, mentre il mondo si spacca e crolla, la cosa è ancora più palese.

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