“Diamant Brut”: un altro ritratto di giovane ragazza, francese questa, quello di Liane, aspirante influencer adolescente del povero Sud. Un film che mi ha dato molto fastidio, e che mi ha ricordato un'espressione letta qualche anno fa su una rivista online, lo “sguardo borghese”, che non considererei come un concetto, ma che trovo illuminante nel verificarsi di questo modo che ha un certo cinema di guardare a personaggi provenienti da contesti svantaggiati.
è ambientato a Fréjus, in questa riviera francese poco glamour, filmato come l'America spazzatura bianca nel cinema indipendente americano. Liane vive in una periferia che raggiunge attraversando zone semiabbandonate, con la madre e la sorellina, in condizioni di assoluta precarietà. Ogni giorno nella sua stanza passa ore a truccarsi, vestirsi, pettinarsi, utilizzare attrezzature che generalmente le vengono rubate per realizzare brevi video per i social network. Il Santo Graal, di cui discute costantemente con il suo gruppo di amici, è raggiungere la televisione, diventare poi una famosa influencer e regalarsi la vita che sogna. Un giorno, un produttore di reality la chiama per farle un casting: da quel momento Liane è completamente concentrata su questo obiettivo.
Il film si apre in un parcheggio di notte, con una giovane ragazza che tenta goffamente un trucco. pole dance attorno a un post troppo grande per essere praticato in questo modo, vediamo i suoi lunghi capelli, i luccichii che brillano e c'è già tutto: l'intenzione di magnificare con i mezzi del cinema d'autore una figura che in realtà non lo è. È qui che entra in gioco lo sguardo borghese, questo sguardo borghese, come si dice “sguardo maschile” per parlare di questo famoso sguardo maschile eteronormativo che governerebbe la maggior parte della produzione cinematografica. È uno sguardo totalmente trascurato – so che è una delle mie ossessioni attuali – quello esercitato su questa giovane donna, interpretata da un'attrice proveniente da un casting selvaggio, e che immaginiamo sia stata scelta perché aveva cose in comune con il suo personaggio. Trovo che noi guardiamo meno lei che guardiamo il regista guardarla, con un fascino un po' sospettoso, un fascino che supera di gran lunga la storia: quello che stiamo guardando non è realmente un ambiente, o una persona, ciò che siamo. guardare è un processo voyeuristico, che consiste nello scrutare con compiacenza una figura popolare che troviamo affascinante.
L'obiettivo
L'intenzione del film è ringraziare Liane: scelgo questa parola deliberatamente, perché il film utilizza un sottotesto mistico particolarmente spiacevole. Si tratta quindi di sublimarlo racchiudendolo in un formato di quattro terzi, questo formato quadrato divenuto segno ready-made del cinema d'autore a partire dalla New Wave, modificando l'immagine con processi colorimetrici molto sofisticati che de-. realizzare corpi e luoghi, inserendo melodie di violoncello particolarmente magniloquenti su immagini dove si leggono i commenti, spesso offensivi, comunque molto sessuali, lasciati dai fan di Liane. “duro e delicato” cito il regista che consegna una ricetta di “tonalità” e che dice tutto senza dire nulla: una sorta di neutralizzazione da parte del cinema di una realtà sociale che vorremmo tuttavia commentare e denunciare.
Per fare questo, la fiction si avvale di una struttura particolarmente cruda: mostrare che ci sarebbe una vera Liane, quella forte e fragile allo stesso tempo che sgrida sua madre e rifiuta timidamente un amante, e poi l'altra, quella che imita Kardashian e altri sui social network; La puttana e, in pratica, la vergine. Francamente non si va molto oltre.
In definitiva ciò che il film produce è esattamente ciò che denuncia, esattamente ciò che fa il reality: trasforma il suo personaggio in un'icona, cioè in un oggetto fisso, di cui è il primo fan, ma un fan – come sui social reti – estenuanti, potenzialmente moleste, che ti spingono a dare sempre di più di te stesso. “Diamante grezzo”: il titolo era ironico e impegnato, era l’espressione usata da questo cinico produttore televisivo senza cuore, ma alla fine suona letteralmente come il bottino di un cineasta orgoglioso di aver trovato la bellezza nell’insignificante, e che per farlo taglia brutalmente nella massa.