Album / Polydor / 01.11.2024
Gotico post-punk
Eccoci qui. Dopo sedici anni di attesa, l’Arlesiano volge al termine. Promesso da tempo da Robert Smith, più e più volte rifiutato, dobbiamo ammettere una cosa: avevamo smesso di credere in questo quattordicesimo album. Eppure. Rimettendo in gioco il suo titolo, la band ci ricorda che fino ad ora dovevamo tornare al secolo scorso per trovare il suo ultimo vero capolavoro (Disintegrazionese deve ancora essere nominato). In seguito ci furono una manciata di record onorevoli, ma ora la leggenda era scritta altrove: sul palco, dove il gruppo ha sempre fatto miracoli. Come durante l’ultimo tour europeo di due anni fa, dove furono svelate cinque delle nuove canzoni. Il cantante dai capelli arruffati ha perso i suoi genitori e il fratello negli ultimi anni, Canzoni di un mondo perduto non poteva che essere un album di lutto. Un album nero, prezioso, quasi testamentario. Potrebbe essere l’ultimo album dei Cure e perfino, da qualche parte, l’ultimo album dell’umanità, per quanto imperfetta e fragile possa essere. Otto brani per quasi cinquanta minuti di musica, forma ideale per un addio. A meno che non si tratti di un nuovo inizio.
Più elegiache che mai, lontane dalla fabbrica di successo che a volte il gruppo era negli anni ’80, queste canzoni provenienti da un mondo perduto sono austere, quasi aride. Tuttavia, gli arrangiamenti lussureggianti conferiscono loro un certo calore, o meglio una scala, a volte grandiosa, a volte pomposa. I pezzi si susseguono… e sono ancora molto simili. Più che una raccolta di canzoni, è piuttosto un monolite, eretto sull’altare di una carriera lunga quasi mezzo secolo. Mezzo secolo di sogni e di magia, di nevrosi e anche di malinconia. I Cure in realtà fanno quello che ci aspettiamo da un album dei Cure, almeno nel suo aspetto più contemplativo e oscuro. Nessuna vera sorpresa, se non quella di ritrovare questi sessantenni al massimo della forma. La voce di Smith, senza tempo e inalterabile, tocca sempre il cuore e talvolta fa ancora piangere. La precisione chirurgica del basso di Simon Gallup fa miracoli insieme alla batteria focosa e organica di Jason Cooper. Le tastiere del discreto Roger O’Donnell, a volte un po’ minate da trame d’altri tempi, rivestono il tutto e offrono anche a Reeve Gabrels, ex collaboratore di Bowie alle sei corde, un ampio spazio per il suo discorso loquace ma sorprendentemente coerente con queste nuove composizioni. Un po’ come se questo tocco magniloquente rivelasse ancora altre asperità di questi pezzi epici intrisi di grande lirismo. Canto di guerrala parte superiore del disco, ci ricorda che il gruppo è bravo tanto nelle sue tendenze minimaliste quanto nelle sue scappatelle elettriche, dense e febbrili. ‘Tutto ciò che sapremo mai sarà la fine perché siamo nati per la guerra’quindi non è ancora il momento della pace. Né con te stesso, né con gli altri. Ma questa volta vince il collettivo, anche se Smith firma l’intero album di suo pugno. Nei suoi testi, l’uso del pronome in prima persona plurale è onnipresente, ancor più della soggettività dell’io, così cara all’ideale romantico. Non potrebbe essere altrimenti per un disco che inizia con queste parole: ‘Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo’. Prima di proseguire ancora un po’, ancora dentro Solo : ‘Eravamo sempre sicuri che saremmo rimasti gli stessi’. Questo è positivo perché sono la stessa cosa.
Icone gotiche, assassine di uno spleen ormai intergenerazionale, i Cure non possono essere rifatti così. Prima di tutto, ci sono le sue strazianti canzoni d’amore: E niente è per sempredove Smith descrive la sua paura di invecchiare da solo, senza la persona amata, o addirittura Una cosa fragiledove presta direttamente la sua voce alle parole della sua musa ispiratrice. Un titolo duro, inquieto, tra dichiarazioni appassionate, osservazioni amare, rimproveri e fatalità. Drone: Nodronea parte il suo lato un po’ traballante, ha il merito di offrire grande energia e una inebriante trovata melodica, proprio come la malinconica Non posso mai dire addiodedicato al fratello scomparso di Robert Smith. Tutto quello che sono mai statola canzone più debole del disco, suona come un disperato tentativo di sfuggire al passare del tempo. Ma non bisogna dimenticare che, tra i Cure, il lato dolcemente kitsch può rapidamente lasciarti indietro se non ti fai assorbire dalle micidiali paludi della malinconia. Per gli altri assaporaremo il pezzo conclusivo Canzone finale che, oltre ai suoi oltre sei minuti di antipasto (!), si colloca subito tra le canzoni più ambiziose del gruppo, sempre con lo sguardo rivolto al proprio crepuscolo: ‘È tutto finito […] lasciato solo senza niente’.
Ma tutto questo non è niente, poiché tutto ciò non è vano. Se è la fine di un mondo, forse la fine di un’era, non è certamente la fine dei Cure. A volte deludente, spesso accattivante, il trattamento è appena iniziato: ecco un disco che non può lasciare nulla di intentato.
Foto: Sam Rockman