(SenePlus) – La comunità libanese di Dakar si mobilita di fronte ai bombardamenti che colpiscono il loro Paese d’origine. In un servizio pubblicato dal quotidiano La Croix, le testimonianze rivelano la preoccupazione e la solidarietà di una diaspora profondamente radicata in Senegal da più di un secolo.
Nel cuore del quartiere Plateau di Dakar, i marchi testimoniano una consolidata presenza libanese: “Chez Farid”, “L’Orientale”, la concessionaria Choueiry e perfino il parrucchiere Safieddine. Secondo La Croix, circa 30.000 libanesi, spesso con doppia nazionalità, vivono oggi nel paese della “teranga”. Una presenza che risale agli anni Novanta dell’Ottocento, quando i primi migranti, inizialmente in scalo verso l’America, rimasero per mancanza di mezzi per attraversare l’Atlantico.
Questa storica comunità vive oggi nell’angoscia dall’inizio dei bombardamenti israeliani il 23 settembre. “Non è una guerra, sono massacri. Questi codardi lanciano bombe sui civili, ben protetti da ogni risposta, dal loro computer”, lamenta Walid Ezzedine, 64 anni, citato da La Croix.
Di fronte alla situazione, la diaspora si sta organizzando. Il 22 novembre, festa nazionale libanese, è stata organizzata una manifestazione di sostegno. “Abbiamo ottenuto l’autorizzazione il giorno prima, ho realizzato bandiere e striscioni per tutta la notte”, confida Walid Ezzedine, che aveva già organizzato una manifestazione simile a metà ottobre.
L’aiuto è organizzato anche concretamente. “Abbiamo aperto le nostre case a Beirut per accogliere i rifugiati del Sud”, spiega Zouheir Zeidan, riferendosi alle catene di solidarietà avviate attraverso diverse associazioni con sede a Dakar, Abidjan e Lagos.
Anche il governo senegalese partecipa all’iniziativa, come testimonia il rimpatrio di 117 libanesi dal Senegal, accolti personalmente dal presidente Bassirou Diomaye Faye. Un’azione che illustra gli stretti legami tra i due paesi.
“Se il Libano dovesse scomparire domani, cosa saremo, da dove verremo?”, si preoccupa Zouheir Zeidan sulle colonne di La Croix. Una domanda che riflette l’angoscia di una comunità divisa tra due patrie, una delle quali è oggi minacciata. “Voglio un Libano vivo e libero, affinché mio figlio possa viverci”, conclude Walid Ezzedine, incarnando la speranza di una diaspora che rifiuta di vedere scomparire le proprie radici.