“C’è ancora un mondo a portata di mano” (Tutto quello che doveva arrivare a noi)

“C’è ancora un mondo a portata di mano” (Tutto quello che doveva arrivare a noi)
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Danni Tutto quello che doveva arrivare a noi, Jane Sautière sviluppa uno sguardo retrospettivo ma soprattutto un interrogativo sul presente: non “chi sono io oggi?” » ma «cosa mi succede, succede?» “. La vecchiaia, la malattia, l’assenza del mondo di prima sono sinonimi dell’emergere di qualcosa di nuovo. È proprio questa novità l’oggetto principale di questo libro.

Questa novità si misura in termini di ciò che non è più, ciò che è scomparso, è caduto nell’assenza: ciò che io ero non è più, il mondo che era non è più (“ Vincennes è scomparso, materialmente non rimane più nulla “). Il libro è costruito da questo sguardo al passato, quello del tempo della giovinezza, della vecchiaia minore, quello di altre epoche, di altre persone, di altri modi di pensare, di vivere. Esisteva un altro mondo, un altro corpo, altri corpi, altre possibilità. Invecchiare significa rendersi conto che le possibilità svaniscono una ad una, che l’apertura pian piano si chiude. È sperimentare che diventiamo estranei a noi stessi e al mondo: non riconosciamo più noi stessi, non riconosciamo più ciò che ci circonda – una forma di perdita di noi stessi, degli altri, del mondo. Una forma di solitudine, di annientamento: non è semplicemente il vecchio mondo che scompare, siamo noi, io, che scompariamo in questo mondo: come esistere, continuare ad esistere, ad agire, in un mondo che non è più? il tuo mondo, il mio mondo (“ non sappiamo più come rendere visibile la nostra presenza al mondo ) ?

Tutto questo doveva arrivare a noi dispiega questa esperienza dell’invecchiamento che è esperienza di sé, del mondo, esperienza del tempo, della temporalità attraverso la quale avviene uno spoliazione, una progressiva scomparsa di tutto, compresa, per gli altri e per sé, una scomparsa di sé. Il tempo avanza, il passato assorbe e schiaccia, il presente che costantemente si impone si carica di una novità che mi spossessa di me stesso, del mio mondo – essendo il tempo ciò che mi forma o mi deforma e ciò che mi è più estraneo, o ciò a cui sono più estraneo.

Il tempo è ciò che accade, ciò che accade a me, a me che posso sopportarlo solo senza sfuggirgli, a me e a nessun altro al mio posto. L’esperienza del tempo, dell’invecchiamento, è quella di una forma di solitudine che è anche la solitudine insita nell’esistenza: non che siamo necessariamente soli, ma ciò che sperimentiamo possiamo solo essere soli a sperimentarlo, compresa la malattia, il dolore, la perdita. di sé, morte imminente e, in un certo senso, già qui. Questo è ciò che testimonia l’“io” del testo, che è innanzitutto l’“io” singolare, insostituibile, al quale avviene questa esperienza del tempo, dell’esistenza, della solitudine. Nella totalità del mondo, nel corso generale delle cose, sono io a cui accade questo: questa perdita di tutto, questo crollo di tutto, questa distruzione di me e del mondo, e l’esperienza cosciente di tutto questo. Questo tipo di coscienza riflessa implica l’incontro e il rapporto con qualcosa d’altro da sé nonché, paradossalmente, lo spossessamento dell’io: mi sperimento in modo assoluto sperimentando ciò che, diverso da me, agisce su di me, mi assorbe, mi disfa, mi cancella. L’autobiografia, qui, non è tanto la scoperta o l’espressione di un io costituito e sovrano quanto il racconto di ciò che integra l’io in processi che lo incrinano e lo disperdono, che lo rimandano tanto a se stesso quanto al suo crollo: il corpo, il tempo , il pensiero, il sociale, ecc.

Tutto questo doveva arrivare a noi non offre il bilancio di una vita ma il tracciamento delle linee di una vita: il desiderio, il sociale, il politico, un certo modo di essere nel mondo, con il mondo – un modo di essere se stesso e l’altro qualcosa che è sé stesso . Una vita si direbbe al plurale, essendo una molteplicità di disposizione con gli altri, con qualcosa d’altro da sé, l’io che si coglie in una molteplicità di affetti, pensieri, atti, percezioni. Le linee guida sembrano restare (desiderio, impegno politico, scrittura) anche se sono anche mobili e si trasformano (“ questa natura selvaggia sarà sempre lì »; “ Non possiamo rassegnarci”).

In questo libro, una vita è fatta tanto di ciò che è avvenuto (atti o pensieri) quanto di ciò che avrebbe potuto accadere, di ciò che esiste nella modalità del possibile o del virtuale senza essersi attualizzato, di ciò che è esistito come assenza. Ad esempio, anche se dal punto di vista di una valutazione potremmo parlare di un fallimento politico o romantico, dal punto di vista della vita si tratterebbe di affermare che, sì, sicuramente, il mondo ha davvero siamo stati toccati dal nostro agire e noi siamo stati toccati dal mondo – quindi non eravamo morti –, che questa storia d’amore che non è stata vissuta è stata tuttavia vissuta in un certo modo. Anche se questa esistenza implica incontrare ostacoli, fallire, fallire, la vita implica che qualcosa è successo ed è questa cosa che rimane tale – un’azione o un pensiero o un’emozione con cui è stato prodotto, inventato, creato anche il mondo, con cui l’Io era e resta vivo anche un punto di vista della vita sulla vita (“ NO Tuttavia nel desiderio di vivere è pura essenza “).

Il disegno, la mappa che nel libro forma il paesaggio di una vita, è parzialmente cancellato, sfumato, integra nuove linee che non riconosciamo, nelle quali non necessariamente ci riconosciamo ma che sono comunque qualcosa come “me”, la “mia” vita, questa vita singolare che è “mia”. E quali sono la natura morta, quali sono la vita all’opera come nuova creazione. Vivere qui significa essere colpiti da una novità che ridistribuisce ciò che sono includendo, includendo, l’irriconoscibile. Questa nuova, alla fine del libro, prende la forma di una malattia, l’inizio di una malattia più grave dei disturbi che possono essere stati patiti in precedenza a causa dell’invecchiamento. Un giorno la diagnosi nomina ciò che sta accadendo, il nuovo avvenimento, la nuova riga: “ degenerazione », perdita progressiva e irreversibile delle facoltà, del pensiero e forse, senza dubbio, della parola, della scrittura, di sé stessi.

La diagnosi nomina una condanna e costringe a pensare alla fine, alla morte e al controllo della propria morte – ciò che accade a se stessi, a questo essere singolare e solitario che è se stessi, solo nel vivere la vita. E la morte che è “sua”. Ma ciò che accade è anche, inseparabilmente, qualcosa di nuovo, vale a dire la natura morta con le sue possibilità. In questo libro di Jane Sautière, anche il finale annunciato porta con sé un evento che va vissuto. Fino alla fine la vita si dice, si scrive, la vita ancora. E, paradossalmente, in modo sobrio e potente, si afferma una certa gioia: “ Ti sembra felice di fare il viaggio, di andargli incontro fino al candore totale “.

La malattia non è qui una sorta di accelerazione di ciò che accade nell’invecchiamento, che accade in generale nella vita? Non sarebbe uno stile di vita più veloce e radicale? La vita nel suo processo più “grezzo”? Jane Sautière intuisce allora il linguaggio che sarebbe quello di questa vita: “ Poesia come esito, come scrittura senza standard, giudizi o disposizioni, con le parole che restano e le lacune del testo. La poesia come sopravita “.

Jane Sautiere, Tutto questo doveva arrivare a noiEditions Verticales, aprile 2024, 80 pagine, €10.

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