Dobbiamo smettere di parlare di “religioni” e osare parlare di Islam e islamismo

Dobbiamo smettere di parlare di “religioni” e osare parlare di Islam e islamismo
Dobbiamo smettere di parlare di “religioni” e osare parlare di Islam e islamismo
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In questo momento in Quebec si parla molto di “religione”, “religioni” e “religioso”.

Il discorso è grosso modo questo: l’invasione della religione nelle nostre società sarebbe molto preoccupante, e oggi bisognerebbe andare fino alla fine della sua repressione dalla vita pubblica, in particolare cessando di finanziare le scuole “religiose”.

Questa storia è ovviamente ereditata dalla Rivoluzione Silenziosa e comprendiamo che risuona ancora nell’inconscio collettivo dei quebecchesi – e persino nella loro coscienza collettiva. Traumatizzati da un certo cattolicesimo, gli abitanti del Quebec tendono a ritenere che esista una cosa come la religione, suddivisa poi in religioni particolari, ugualmente cattive, o almeno tossiche.

Ma questa griglia di analisi non ci permette di comprendere cosa sta accadendo in questo momento in Quebec.

La secolarizzazione delle nostre società sembra completa, esse sono più che mai indifferenti alla loro religione storica, il cristianesimo, e preferiscono rannicchiarsi in spiritualità contraffatte, come nuova eraquando sono preoccupati per l’aldilà.

Riassumiamo il tutto con una formula: non è la religione che sta tornando, è l’Islam che sta tornando. Succede nella nostra società e in tutte le altre società occidentali.

Lo dico subito affinché nessuno mi fraintenda: l’Islam è una religione perfettamente onorevole, e ha il diritto di sentirsi a casa in quella che potrebbe essere definita la sua zona storica o naturale. Aggiungo, a titolo del tutto personale, che non sono tra coloro che detestano il fenomeno religioso in sé.

La cosa però diventa più complessa quando l’Islam si afferma massicciamente in Occidente, seguendo le grandi correnti migratorie del nostro tempo.

Tanto più che l’Islam, qualunque cosa si dica, non si integra così facilmente come vorremmo nelle nostre società, al punto che non si presenta semplicemente come una fede personale, ma come una religione destinata a strutturare la vita sociale e pubblica. Egli non cerca tanto di adattarsi alle società in cui si stabilisce, quanto di costringerle ad adattarsi a lui.

Arriva nelle nostre società trasportato da una dinamica ideologica, culturale e demografica, che destabilizza profondamente le società occidentali.

Aggiungeremo, perché questo non è un dettaglio, e perché dobbiamo pensare a lungo termine se vogliamo comprendere le dinamiche delle società umane, che l’Islam è guidato per certi aspetti da una forma di revanscismo storico.

I migliori storici lo sanno da tempo: la tensione tra Islam e Occidente attraversa i secoli. Incarna addirittura l’idea dello scontro di civiltà teorizzata da Huntington.

Anche la cultura popolare aveva registrato questa realtà: basta avere presente la figura di Carlo Martello per esserne convinti, anche se oggi si tende a ridicolizzarlo. Basta avere in mente la Reconquista per convincersi anche di questo: è stata a lungo considerata una pagina gloriosa della nostra civiltà, anche se oggi si cerca di invertire il suo significato, oltre a neutralizzarlo attraverso il mito inventato di una città luminosa e cosmopolita. Andalusia.

Il mondo occidentale, infatti, sembra non comprendere più la propria storia, il che lo porta a non comprendere più la propria identità.

L’Islam ha vissuto un grande risveglio nel XX secoloe secolo, in una forma abbastanza radicale. La fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, che portavano esplicitamente avanti il ​​progetto di conquista islamica dell’Europa, come ha dimostrato in modo eclatante Florence Bergeaud-Blackler nel suo libro Fratellanzapubblicato nel 2023, o la rivoluzione khomeinista in Iran, nel 1979, che intendeva riportare l’Islam alla sua definizione fondamentalista, cioè convertirlo all’islamismo, ne sono testimonianza.

Gli occidentali, per molto tempo, non sono riusciti a capirlo poiché immaginavano il mondo intero impegnato in una dinamica di secolarizzazione simile alla loro. L’Islam, dal loro punto di vista, era destinato a conoscere lo stesso movimento del Cristianesimo: le sue manifestazioni fondamentaliste venivano quindi percepite come gli ultimi spasmi di un tradizionalismo religioso morente.

Questo è ciò che ha impedito loro di comprendere la portata del velo islamico nelle nostre società – l’errore della Francia nel 1989, all’epoca del caso del velo di Creil, ne è testimonianza.

Naturalmente dobbiamo distinguere l’Islam dall’islamismo e ricordare costantemente a noi stessi che, ovviamente, non tutti i musulmani sono islamisti. La stragrande maggioranza è resistente al terrorismo islamico, e anche questo va sottolineato. Molti desiderano vivere la propria fede in silenzio, in pace, senza alcuna aggressione, e sono veri critici dell’islamismo. Vogliono soprattutto viverlo alla maniera occidentale, quando si insedieranno nelle nostre società, senza cercare di imporlo a tutti. In questo modo dimostrano di essere compatibili con la nostra civiltà. Dovremmo stare attenti a non riprodurre qui ciò che sono fuggiti quando hanno lasciato il loro paese d’origine.

Detto questo, l’islamismo è inseparabile dall’Islam: ne rappresenta la radicalizzazione patologica. E una società che si islamizza gradualmente vedrà inevitabilmente crescere l’islamismo al suo interno. Gli fornirà il terreno necessario per questo.

Soprattutto, come ho detto poco sopra, l’Islam si è affermato solo nel mondo occidentale, dove ha avuto finora solo una presenza marginale, con la massiccia immigrazione degli ultimi decenni.

Chi ha creduto seriamente un giorno che avremmo potuto permettere e addirittura incoraggiare l’immigrazione massiccia di milioni di persone portatrici di culture e civiltà profondamente estranee al mondo occidentale, pensando che tutto ciò potesse avvenire senza il minimo problema? La questione del numero rimane qui la più fondamentale.

Questa è una lezione elementare di antropologia: le culture, e dovremmo piuttosto parlare di popoli, che convivono in un territorio non lo fanno pacificamente e sono inevitabilmente chiamate a sperimentare attriti, per sapere quale sarà la cultura di riferimento. Questo è il motivo per cui normalmente sono entrambi inclini a costituirsi come Stato e a rivendicare confini, a contrassegnare chiaramente come norme il paese in cui sono istituzionalizzati.

La storia della differenziazione delle culture e delle nazioni si fonde con quella della moltiplicazione dei confini e degli Stati.

Perché una cultura non è solo una serie di preferenze personali, non è solo un folclore familiare privato, non destinato a sconfinare nella vita pubblica: struttura i rapporti sociali fondamentali, i rapporti tra i sessi, la concezione del pudore, del sacro, del sacro. violenza, proprietà. Questa verità è ancora più evidente quando parliamo di civiltà.

Inoltre, non possiamo equiparare la resistenza degli occidentali all’islamizzazione della loro società e dei costumi dei rispettivi paesi con l’islamofobia. Philippe d’Iribarne ha dimostrato in un’opera decisiva che l’accusa di islamofobia non ha alcun fondamento nelle società occidentali. Il suo titolo era precisamente Islamofobia: ebbrezza ideologica. Ha analizzato questo concetto nei minimi dettagli, mostrando che gli occidentali accettano facilmente la pratica personale di una fede, ma non sono molto entusiasti quando una civiltà-religione cerca di ridefinire unilateralmente il funzionamento della loro società.

Potremmo aggiungere che questo concetto cerca di mettere nello stesso sacco la critica all’Islam, quella all’islamismo, così come la semplice constatazione della difficilissima integrazione dell’Islam in Occidente.

La stupidità intellettuale, combinata con l’ignoranza e l’ingenuità di uno scolaro che pensa di essere benevolo, spinge le società verso l’autodistruzione. Solo i teorici e gli ideologi del multiculturalismo hanno potuto credere per un momento che una convivenza diversa, pacifica e fruttuosa fosse possibile, e perfino probabile.

Nella loro mente, lo Stato doveva diventare culturalmente neutrale e aperto alla diversità delle identità, trattando la cultura del paese ospitante come un’identità tra le altre, senza diritti specifici. L’unico ostacolo a questa grande conversione multiculturalista è stato trovato nell’intolleranza attribuita alle società occidentali, che rifiutano la sfida della diversità, proprio rifiutando di diventare ciascuna una cultura opzionale. In Quebec, da questo punto di vista, il rapporto Bouchard-Taylor, pubblicato poco più di quindici anni fa, era una stupidità himalayana.

Era una logica allo stesso tempo alienante e sradicante, contraria a un principio elementare, senza il quale non è possibile la pace civile: a Roma facciamo come i romani. I popoli storici occidentali ora temono, con buona ragione, di diventare stranieri e minoranze nei propri paesi. Il destino di Londra, Bruxelles, Malmö, Seine-Saint-Denis, in Francia, e di tanti altri territori del mondo occidentale fa presagire un triste futuro.

Se il Marocco e l’Algeria diventassero paesi a maggioranza cattolica, non sarebbero più marocchini e algerini solo di nome. Avrebbero quindi perso la loro identità. Nessuno glielo augurerà. Allo stesso modo, dobbiamo convenire che una società occidentale che diventasse prevalentemente musulmana, anche se non diventasse islamista, non sarebbe più se stessa, e ha il diritto di non volerlo diventare.

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