Con To Lam, il Vietnam ottiene un presidente dall’apparato di sicurezza

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Il ministro della Sicurezza interna vietnamita, To Lam, nominato alla presidenza del Paese, il 20 maggio 2024, ad Hanoi. NHAC NGUYEN/AFP

Dopo diversi mesi di instabilità ai vertici del potere, l’adesione alla presidenza del Vietnam del generale To Lam, attuale ministro della pubblica sicurezza (la polizia), ha tutte le sembianze, se non di un esito, almeno di un passo importante nelle feroci lotte di potere che hanno monopolizzato questo regime monopartitico negli ultimi anni. L’ambizioso e potente Lam sembra, in questa fase, emergere un chiaro vincitore: è stato eletto dall’Assemblea nazionale mercoledì 22 maggio, dopo essere stato raccomandato dal partito. A scrutinio segreto, 472 dei 473 deputati hanno approvato questa scelta, secondo la televisione di Stato.

Il Vietnam è senza presidente da marzo, in seguito alle dimissioni a sorpresa di Vo Van Thuong. Tuttavia egli aveva già sostituito un predecessore che si era “dimesso” dopo appena un anno ricoprendo questa carica largamente simbolica, che in realtà corrisponde al secondo grado nella gerarchia del partito-stato: il potere supremo in Vietnam è detenuto dal generale segretario del Partito comunista vietnamita (CPV), Nguyen Phu Trong, in carica dal 2011.

A fine aprile è stata la volta del presidente dell’Assemblea nazionale, Vuong Dinh Hue, quarto “pilastro” del partito-stato, a gettare la spugna. Lo ha seguito, il 16 maggio, Truong Thi Mai, unica donna membro dell’ufficio politico, il collettivo dirigente del PCV. Ora conta solo dodici membri invece di diciotto, a seguito delle successive dimissioni al vertice dal congresso del 2021: un’emorragia senza precedenti nella sua storia. Oltretutto A Lam in qualità di presidente del paese, il comitato centrale del CPV ha raccomandato la sostituzione per altre cariche politiche e posti vacanti nello stato. Questi ultimi vengono poi “eletti” dall’Assemblea nazionale – una formalità in questo sistema monopartitico.

“Orchestrare rivalità di potere”

Tutti questi leader si dimettono ufficialmente in nome del mistero “violazioni e mancanze” nella gestione degli affari del Paese che, per alcuni, lo avrebbero fatto “ha causato un’influenza negativa sull’opinione pubblica” E “ha influito sulla reputazione del partito, dello Stato e di loro stessi” : nel linguaggio comune, la loro partenza equivale ad un’uscita onorevole e negoziata dai casi di corruzione che li riguardano direttamente o indirettamente. Ma queste non mancano: centinaia di funzionari del partito, ma anche ricchi e famosi imprenditori, sono stati pesantemente condannati da quando, nel 2016, il numero uno del PCV, Nguyen Phu Trong, ha lanciato un vasto piano anti-corruzione campagna e “moralizzazione” del partito denominato “Fornace Ardente”, sul modello di quello portato avanti in Cina dal suo omologo cinese, Xi Jinping, a partire dal 2013.

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