“Niki” evita le trappole del film biografico sull’artista

“Niki” evita le trappole del film biografico sull’artista
“Niki” evita le trappole del film biografico sull’artista
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Il film è di Céline Sallette, che fino ad allora conoscevamo come attrice: è il suo primo lungometraggio, dedicato a una figura molto importante dell’arte del Novecento, la franco-americana Niki de Saint Phalle. Si confronta quindi con una forma formidabile del cinema: il film biografico, o biopic come si suol dire, e per di più, il biopic d’artista – mille insidie ​​quindi, il film dal titolo sobrio Nikise la cava piuttosto bene, nonostante alcuni eccessi esplicativi.

All’inizio del film, Niki, che non si chiama ancora de Saint Phalle, si mette in posa come modella: è un fermo immagine. Vediamo il suo volto e la parte superiore del busto, le mani impegnate a sistemare i vestiti, i capelli, il trucco, poi una voce maschile fuori campo, quella del fotografo, abbaia ordini: Niki è prima di tutto un oggetto, interpretato da uomini, interpretato da artisti diversi da lei. Questa scena è una sorta di trampolino di lancio teorico per il film che intende fare il contrario: mostrare Niki come soggetto, e come soggetto della propria emancipazione artistica. Per il momento vive un’esistenza bohémien con il marito, scrittore, che dipinge nel tempo libero, che è poco numeroso, perché è già mamma di una bambina, e soprattutto perché soffre di disturbi paranoici e depressivi. attacchi che la costringono all’internamento in una clinica. Fu lì che divenne, secondo le sue stesse parole, un’artista, e una volta lasciata iniziò a dipingere seriamente e a incontrare Tinguely, Arman, l’intero gruppo dei futuri Nuovi Realisti.

Il film riesce a intrecciare senza opporsi la vita di artista di Niki e la sua vita di moglie e madre, la cui convivenza non è priva di conflitti, e di mostrare cosa vuol dire essere un’artista donna in un’epoca e in un campo in cui erano una ultra-minoranza. Il film qui evita sintesi troppo dimostrative, rimanendo molto legato al suo soggetto: Niki è in ogni suo aspetto, e non rappresenta altro che se stessa. Ciò è dovuto all’interpretazione di Charlotte Le Bon che interpreta il ruolo della protagonista e che riesce a ritrarre una figura femminile davvero singolare, perché è allo stesso tempo molto bella, sofisticata, ma anche un po’ goffa, a volte con una silhouette burlesque: una figura strana , costantemente sull’orlo della crisi – che mantiene l’interesse dello spettatore anche oltre il quadro di riferimento. Che si tratti di Niki de Saint Phalle, alla fine, spesso conta meno che sia un buon personaggio: spesso il biopic è tanto meglio quanto il personaggio si emancipa dalla sua fonte – penso al genere dei Van Gogh di Pialat.

Arte vivente

Il film sceglie un primo periodo, quello dell’apprendistato: quando Niki dipinge, poi inizia ad assemblare oggetti in sculture, e infine presenta nel 1960 la sua prima performance pittorica intitolata “Shooting”, dove spara con una pistola su un dipinto che rappresenta un figura maschile alla quale ha attaccate tasche colorate. Ma soprattutto sceglie di non mostrare il suo lavoro: non vediamo i suoi quadri quando lavora a casa, né le sue installazioni in ospedale, né il quadro su cui disegna: tutta la sua produzione plastica resta fuori campo, anche quando un gallerista viene ad osservare il suo lavoro e noi possiamo vedere solo il retro dei quadri. Scelta schietta da parte del regista, a volte un po’ eccessivamente espansiva, ma non priva di interesse, e che permette di evitare queste scene, spesso catastrofiche, come quelle in cui un attore di spalle finge di dare l’ultima pennellata a una riproduzione – ho recentemente ho pensato a un film su Bonnard, che soddisfacesse tutti i requisiti del pesante ritratto di un artista al lavoro. Un modo per evitare di congelare il ritratto in corrispondenze concordate e artificiali tra arte e vita, sottraendo l’arte di Niki a un patrimonio riprodotto sullo schermo e mostrandola come una pratica viva.

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