lUna stanza è piena, in questa primavera del 1981, pronta a essere scoperta L’Uomo Elefantedi David Lynch. I popcorn vengono gentilmente condivisi, prima che si stabilizzi un silenzio di piombo. Fino al momento in cui uno spettatore, vedendo l’uomo dalla testa deforme, emette un grido triplo di fronte alla folla che lo insegue in una pissotière, spinge il proprio grido, seguito da violenti singhiozzi. Si alza per andarsene, e sentiamo che ogni spettatore lo capisce, lo sostiene, lo accompagna. Ricordiamo questo piccolo miracolo di chimica emotiva tra lo schermo e la stanza come ricordiamo la sua vita con un film di David Lynch.
Non è un grido di paura, ma di umanità, che fa eco alle parole pronunciate poco prima da John Merrick: “Non sono un animale!” Sono un essere umano! »» Non lasciamo un film di David Lynch per delusione, ma per una dolorosa alchimia con la sua stessa storia.
Una settimana dopo la sua morte, all’età di 78 anni, non vediamo modo migliore per dire come il cineasta americano dal cervello folle e dall’elegante cortesia sia una specie rara e in via di estinzione: un artista conosciuto in tutto il mondo rendendo i film più vicini al tentativo esperienza che intrattenimento.
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Che non capisci molto del tuo film Mulholland Drive (2001) o che vediamo, una volta entrati nel labirinto della serie Cime gemelle (del 1990), che non ci interessa la sua proposta in fretta – chi ha ucciso Laura Palmer? – non è un problema, poiché Lynch intende far funzionare in noi la macchina delle sensazioni e farci pensare. Come se ci dicesse di fare il film a modo nostro. Anche se significa vivere un trauma, nel buon senso della parola, come hanno potuto dire con infinito riconoscimento i suoi attori Laura Dern, Naomi Watts o Kyle Maclachlan.
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