Un monumento del XX secoloe secolo –
Shostakovich, il suo universo lirico e stridulo
Il compositore sovietico resta un valore sicuro nella musica classica, a cinquant’anni dalla sua morte. Il Jerusalem Quartet suona i suoi quindici quartetti a Vevey. Panoramica degli omaggi e delle festività.
Pubblicato oggi alle 10:02
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- Il compositore russo Dmitri Shostakovich continua ad affascinare.
- La sua carriera sperimentò tensioni con il regime totalitario sovietico.
- Ha giocato un doppio gioco tra musica ufficiale ed espressioni personali.
- I suoi quartetti offrono una rara immersione nella sua musica densa e criptica.
Aggrappati al tuo posto, è come se la terra tremasse, il tuo respiro fosse soffocato, il tuo sangue congelato: la violenza omicida, l’oppressione maniacale, l’impotenza di fronte all’ingiustizia e all’arbitrarietà ti salta in gola. E poi, in un quarto di secondo, un coro orecchiabile e banale spazza via queste ansie come se fosse tutta una farsa, solo che questo ottimismo esagerato finisce per suonare falso e discordante. La musica di Dmitri Shostakovich (1906-1975) offre spesso un’esperienza del genere. Caldo e freddo, intenso e ambiguo, esuberanza e aridità, in un turbinio emotivo mozzafiato.
Mezzo secolo dopo la sua morte, la figura del compositore russo continua ad affascinare. Innanzitutto le sue opere, di inesauribile ricchezza, dal pianoforte solo all’opera, dalle colonne sonore dei film alle gigantesche sinfonie, che non hanno conosciuto purgatorio (se non durante la sua vita!). E la sua vita è inseparabile dal tortuoso connubio tra arte e politica – in questo caso tra il regime totalitario dell’Unione Sovietica e il suo musicista più dotato.
Dal 17 al 23 gennaio, l’integrale a Vevey dei suoi quindici quartetti d’archi, che hanno accompagnato la sua vita dal 1938 al 1974, offre la rara opportunità di immergersi in una musica densa, criptica ed emozionante. Prima di altri tributi.
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A lungo descritto come il Beethoven del XX secoloe secolo, influenzato tanto dal grande repertorio russo quanto da Mahler e Berg, Shostakovich non è più l’epigono di nessuno, poiché la sua musica ha scioccato generazioni di amanti della musica e influenzato numerosi compositori.
Che sia il piantagrane dell’avanguardia degli anni ’20, il neoromantico costretto dal potere a semplificare il suo linguaggio, il cantore del destino eroico del suo popolo, lo schernitore dall’ironia devastante, il postmodernista disilluso e l’austero minimalista degli ultimi anni, il suo lo stile è riconoscibile dalla prima battuta. E sempre polisemico, se ci prendiamo la briga di andare oltre il “Valzer” della “Jazz suite No. 2”, il suo tubo planetario riciclato dalla pubblicità.
Un successo colpevole
Musicista precoce e prolifico, orchestratore nato, dotato di uno sconcertante senso narrativo, il pietroburghese ne aveva tutte le doti e la sua carriera era in crescita finché Stalin stesso la pose fine dopo aver assistito all’opera “Lady Macbeth di Mcensk”. Shostakovich conservò per tutta la vita i ritagli stampa di questa infuocata discesa, nonché una valigia pronta accanto al letto per un probabile viaggio notturno di sola andata nel Gulag.
Questa situazione paranoica di un artista letteralmente intrappolato tra il martello e… la falce ha ispirato magnificamente lo scrittore William T. Vollmann, che ha reso Shostakovich uno dei personaggi principali del suo romanzo “Europa centrale” (Actes Sud 2005). Necessario per la propaganda comunista, la sua personalità troppo forte non poteva saggiamente conformarsi al dogma del Partito con cui giocò al gatto e al topo per tutta la vita: lui era il topo.
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In Occidente raggiunse molto presto una fama incredibile che culminò durante la guerra dove i suoi 7e La sinfonia “Leningrado” illustrava la resistenza ai nazisti. Ma fu criticato anche per il suo pomposo accademismo, evitato a causa del suo ruolo di “compositore ufficiale della linea del Partito”. Anche oggi i suoi detrattori non hanno rinunciato alle armi. Se il direttore d’orchestra Charles Dutoit, intervistato questo mese su “Classica”, ritiene che la musica di Shostakovich “è scritta molto bene e parla alla gente, ma va a scapito del resto”, non gli farebbe forse un ulteriore vantaggio? ingiustizia, quando per lui era una questione di sopravvivenza?
La resistenza dall’interno
La pubblicazione postuma delle sue “Memorie” (raccolte da Solomon Volkov, in parte soggette a dubbi) avrà rivelato un artista decisamente ribelle. Inoltre, è utile distinguere nella sua produzione le opere “ufficiali” da quelle “private”, quelle che rifiutano di conformarsi ai canoni estetici del realismo socialista propugnati da Stalin, Zhdanov (segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1939 al 1948) e Khrennikov (segretario generale dell’Unione dei compositori dal 1948 al 2003).
Sarebbe dunque troppo semplice vedere nelle sue sinfonie il lato politico e nella sua musica da camera quello, austero e pessimista, dell’artista finalmente sincero. Delle sue quindici sinfonie, più di una non ebbe la fortuna di piacere al Comitato Centrale: la “Sinfonia n. 4” del 1936 fu creata solo nel 1961, e alcuni quartetti rimasero preventivamente nel cassetto.
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La leggenda secondo cui Stalin fu risparmiato perché amava le sue colonne sonore non è inverosimile. Ma il suo colpo di genio fu quello di inventare un linguaggio non troppo modernista, profondamente personale, e soprattutto sottilmente ambiguo: riuscì così ad aggirare la censura e a trasmettere un messaggio emotivo forte ad ascoltatori meno gretti dei quadri del Partito.
Dopo la morte di Stalin, la presa ideologica per il compositore si allentò un po’, ma fu costretto ad obblighi ufficiali e la sua salute vacillò, rendendo la sua scrittura più difficile. La scarsità del materiale musicale non ne ha impedito la complessità. Al contrario. Sviluppò uno stile di grande economia di mezzi, fatto di motivi ripetuti, serie dodecafoniche mimetizzate (un tabù secondo l’estetica comunista), autocitazioni delle sue opere inserite nella lista nera o di compositori che ammirava. Oltre a un’espressività crepuscolare, i suoi ultimi lavori offrono un’insondabile caccia al tesoro dai criptici messaggi autobiografici.
Matteo Chenal è giornalista nella sezione culturale dal 1996. Si occupa in particolare dell’abbondante attualità della musica classica nel Canton Vaud e nella Svizzera romanda.Maggiori informazioni
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