Teatro
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Nel suo adattamento dell’opera di Marcel Pagnol, messo in scena nel carcere di Arles nel 2016, l’artista riduce la sua messa in scena all’avventura umana dei suoi interpreti.
L’arredamento è unico, una panetteria, una sala da tè, senza fascino e senza veri clienti. Sentiamo Jeanne Mas cantare Johnny, Johnny, Periodo Sheila Distanziatore, che diventa, nel passaggio al nero, la colonna sonora del pezzo, un commento alla posta in gioco per Marius: «È uno spaziale/Un cacciatore di stelle», un “cacciatore di stelle” incastrato dietro il bancone, con il padre César dolcemente sulla schiena, Fanny, una piccola parrucchiera che aspetta che lui si dichiari e la vita che scorre senza di lui. Gli affari vanno bene, la gente preferisce McDonald’s, il cibo non ha un bell’aspetto; i panini invenduti vengono lanciati ai piccioni e la macchina del caffè è rotta. Anche Marius, privo di avventure, aspetta l’occasione per scappare il più lontano possibile dalla vita angusta di suo padre, partite a carte con Escartefigue, Panisse che noleggia scooter e questo signor Brun di Lione che non gioca nemmeno a picche.
E’ così, è così Mario (1929) di Marcel Pagnol, rivisto e non poco corretto da Joël Pommerat e dai suoi interpreti, in un progetto “avé l’assent”, nato da un laboratorio teatrale di lunga durata presso la Maison centrale d’Arles. Lo spettacolo è stato creato lì nel 2016, lei fugge in tournée con ex prigionieri sul set