Restituzioni postcoloniali nel cuore del “Dahomey”, Golden Bear – Il mio blog

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Restituzioni
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Il re Ghézo non è più solo un numero nell'inventario di un museo parigino: prende vita davanti alla telecamera di Mati Diop, che racconta il ritorno in Benin di questa statua e di altre opere trafugate dalla Francia durante l'epoca coloniale.

Nel documentario “Dahomey”, che ha vinto l’Orso d’oro a febbraio a Berlino e uscirà nelle sale francesi mercoledì, il regista franco-senegalese, 42 anni, affronta questo movimento avviato negli ultimi cinque anni da ex potenze come Francia, Germania e Belgio.

Per raccontare la storia di 26 opere trafugate nel 1892 dal regno del Dahomey, nella parte centro-meridionale dell'attuale Benin, allora composto da diversi regni, Mati Diop utilizza come voce narrante la statua antropomorfa del re Ghézo, che regnò dal 1818 al 1858.

In una delle lingue più diffuse del Benin, il fon, si lamenta di non avere più un nome, solo un numero, “26”, nelle riserve del museo Quai Branly.

Descrive il suo sradicamento dalla sua terra, la sua vita in esilio, poi il suo recente rimpatrio in un museo a Cotonou, la capitale del Benin.

Per questa narrazione, “era particolarmente importante che la statua parlasse una lingua del Benin e non il francese, la lingua del colonizzatore”, sottolinea questa “afrodiscendente”, come si definisce, nata e cresciuta a Parigi.

– “Cose” –

Il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente del Benigno Patrice Talon, che hanno avviato questa restituzione il 10 novembre 2021, non compaiono nel film.

Per Mati Diop (Gran Premio a Cannes nel 2019 per “Atlantiques”), non si trattava di celebrare questa iniziativa politica.

La figlia del musicista Wasis Diop ha voluto sottolineare che la restituzione di questi 26 tesori è stata ben poca cosa “rispetto alle 7.000 opere ancora sequestrate al museo Quai Branly”.

La seconda parte del film si concentra sulla loro accoglienza in un Paese trasformato dopo la loro partenza e che li aveva in parte dimenticati.

In un dibattito tra studenti, uno spiega di essere cresciuto con i cartoni animati americani “Tom e Jerry” e di non aver avuto alcuna conoscenza di questa “roba”.

“Dahomey ci spinge a mettere in discussione tutta la storia trasmessa dall'istruzione primaria, secondaria e universitaria”, nota Gildas Adannou, studente di 29 anni dell'Università di Abomey Calavi e vicedirettore, in un'intervista realizzata dall'AFP durante la Berlinale.

Mati Diop vorrebbe che il suo film fosse “visto nel maggior numero possibile di paesi africani”. “Bisogna farlo vedere ai più interessati”, ha detto all'AFP la nipote del senegalese Djibril Diop Mambéty, regista di “Touki Bouki” (premio della critica internazionale a Cannes nel 1973).

“Voglio che venga mostrato nelle università, nelle scuole. C'è un vero lavoro da fare per trasmetterlo.”

clp/fbe/pel/sla

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