Tra gli ospiti dell’insediamento di Donald Trump lunedì 20 gennaio, alcuni avrebbero senza dubbio preferito non essere presenti. Non per antipatia verso il nuovo Presidente degli Stati Uniti, ma perché solo una grande disgrazia, avvenuta il 7 ottobre 2023, è valsa loro questo onore. Quel giorno, sette dei loro parenti (compresi tre giovani soldati), tutti con doppia cittadinanza americana-israeliana, furono rapiti o uccisi dagli islamici di Hamas, che ne detengono ancora tre. Invitando le loro famiglie, a partire dall’8 gennaio, Donald Trump si è inserito in una logica molto chiara: quella che lo ha portato a dimostrare il suo potere e la sua capacità di risolvere i conflitti imponendo un accordo tra Israele e l’organizzazione islamista. È chiaro che il presidente americano ci è riuscito perfettamente. L’accordo è entrato in vigore giusto in tempo per la sua cerimonia di insediamento. Donald Trump è diventato un vero eroe per molte famiglie di ostaggi.
Molti lo riconoscono come a «cambio di gioco»per usare l’espressione del franco-israeliano Hadas Kalderon, il cui ex marito è ancora a Gaza: colui che, ribaltando il tavolo, sblocca una situazione bloccata da più di un anno. Quello, soprattutto, la cui diplomazia intransigente potrebbe restituire loro dei cari di cui non hanno più notizie da quindici mesi ormai. Nei giorni scorsi abbiamo visto striscioni rivolti direttamente a lui, come se la Casa Bianca fosse ormai diventata l’unico luogo da cui poteva venire la salvezza: “Presidente Trump, portateli tutti a casa. » Sabato 18 gennaio, alla vigilia della liberazione dei primi tre ostaggi tenuti da Hamas, una doppia manifestazione ha dato un quadro di questo entusiasmo.
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