Attrice alla quale affida qui il ruolo di Martha, ex reporter di guerra malata di cancro incurabile. Nella sua stanza d’ospedale, riceve la visita di una vecchia amica scomparsa da tempo, Ingrid (Julianne Moore). Lavorarono insieme per una rivista, poi Martha partì per viaggiare per il mondo e Ingrid divenne una scrittrice di successo. Poco dopo il loro ricongiungimento, Martha fa una richiesta inquietante a Ingrid. Ha affittato una villa in mezzo al bosco e vorrebbe che la sua amica la accompagnasse in questo ultimo viaggio. Non avrà altro da fare se non tenergli compagnia nell’attesa della fine.
Come in Dolore e gloria (2019) la malattia è onnipresente, la morte più precisamente, che Pedro Almodovar oppone alla vita, incarnata da Ingrid e da questa foresta. Non è certo il film più gioioso del cineasta spagnolo. Lo conoscevamo più leggero. La stanza accanto è anche meno stravagante, più morbido dei suoi soliti lungometraggi.
Quindi c’è un lato crepuscolare ma pacifico. Ciò non vuol dire che manchi di profondità o ricchezza. La stanza accanto parla della morte, di come accoglierla e di come superare le tragedie. I ritratti che si incrociano di questi due amici si nutrono dei loro discorsi: bilanci e rimpianti, parole di conforto, paure per il futuro di un mondo che sembra al collasso.
Ritroviamo le ossessioni del regista: il passato che lo tiene prigioniero, i personaggi femminili ma anche l’uso dei colori vibranti. Tuttavia non è mai vistoso, né nella messa in scena né nelle parole. Pedro Almodovar filma con modestia la fine della vita di Martha e l’attesa di Ingrid nella stanza accanto. Egli abbraccia le sue inquietudini, ci invita a immergerci nelle riflessioni intime che animano ogni essere umano. Ne usciamo emozionati, ovviamente, ma senza alcuna sensazione di disagio. Questo Leone d’Oro ha quindi le qualità di un dramma che tinge di poesia una realtà difficile da affrontare.