È una regione di fuoco e sangue quella che si lasceranno alle spalle il presidente Joe Biden e il suo emissario Antony Blinken, che ha costantemente percorso la regione per spegnere il fuoco da entrambe le parti senza mai riuscirci. L’unico cessate il fuoco vagamente durato tra Israele e Hamas è stato quello del Qatar nel novembre 2023, che ha consentito il rilascio di decine di ostaggi contro prigionieri palestinesi e che ha lasciato presagire un vento di cambiamento per il futuro. Donald Trump entrerà in carica il 20 gennaio e ha promesso qui come altrove di fermare il rumore delle armi e gli spargimenti di sangue. È possibile?
Nel frattempo, ormai da più di un anno, una cinquantina di ostaggi israeliani presunti vivi continuano a languire nei tunnel di Hamas a Gaza. Mentre il governo israeliano ha annunciato il pieno successo della guerra condotta nel piccolo territorio bombardato da mesi, resta l'amaro in bocca per chi ha ancora a cuore la situazione di questi israeliani, a cominciare dalle famiglie. Se è un tale successo, chi tiene ancora prigionieri israeliani? Perché sono ancora lì ad aspettare una morte che purtroppo è sempre più probabile viste le loro condizioni da tanti mesi? Non bastavano le armi come le parole per vederli tornare a casa. Recentemente le famiglie hanno protestato violentemente alla Knesset contro il primo ministro israeliano.
Tuttavia c'è da chiedersi, al di là della loro condizione fisica, quale stato d'animo avranno nei confronti di Benjamin Netanyahu se per qualche miracolo arrivasse il giorno della loro liberazione. E soprattutto come vedrebbero gli sviluppi regionali a partire dal 7 ottobre? Ci chiediamo anche se, con la loro rivolta, non sarebbero coloro che, con la loro rabbia, metterebbero fine alla carriera politica di Netanyahu che non ne ha mai fatto una priorità nella guerra di vendetta. Forse nutrono grandi speranze per il ritorno di Donald Trump?
Un’influenza su Netanyahu
Più in generale, da allora sono morti 40.000 civili di Gaza, un territorio devastato, un Libano sotto gli attacchi dello Stato ebraico (anche se il 26 novembre è stato appena concluso un cessate il fuoco), e due organizzazioni che esistono ancora nonostante il “successo” di questo conflitto guidato da Netanyahu: Hamas e Hezbollah resistono ancora, anche se in fondo sono paria di molti Paesi arabi che dal lato sunnita li vorrebbero scomparire sicuramente, e che sono in qualche modo contenti che Israele abbia in gran parte iniziato il lavoro. Paesi, in particolare parte degli Accordi di Abraham, firmati da Trump. Ad oggi e per due mesi non ci sono molte speranze di vedere il ritorno della “pace”.
L’Iran non accoglie con favore il ritorno di Trump
Ma Donald Trump ha un vantaggio fondamentale che nessuno ha da un anno: sa di avere influenza su Netanyahu e potrebbe essere l’unico. È lui che deciderà in parte il suo destino. Sostenendo lo sforzo bellico e decuplicando gli aiuti per la sicurezza dello Stato ebraico, si può negoziare allo stesso tempo la cessazione delle ostilità per ritornare allo status quo prima del 7 ottobre: più che conflitto, niente Stato palestinese ovviamente, il ritorno delle popolazioni palestinesi al nord di Gaza, la ricostruzione e gli aiuti umanitari e una forma di gestione di Gaza che liberi americani e israeliani. Resta da vedere in che forma.
Il resto dopo questo annuncio
Molti hanno esagerato sul Qatar accusandolo di finanziare Hamas, ma dimenticano di dire che ciò è avvenuto su richiesta di Washington con l'accordo di Tel Aviv. Allo stesso tempo, dimenticano di ricordare che Netanyahu è sempre stato motivato a dividere il campo palestinese, lasciando che Hamas facesse la sua parte, indebolendo così l’Autorità Palestinese. Oggi Doha resta centrale perché, anche se per il momento ha chiuso la porta ai negoziati, a causa della cattiva volontà degli israeliani, ma anche di Hamas, ha preso un posto senza precedenti in un processo regionale così rischioso.
E Trump sa che il Qatar, con la base americana ad Al Oudeid, è un alleato essenziale, come l’Arabia Saudita, per i suoi affari nella regione. Lontana è la crisi del Golfo del 2017: da diversi mesi gli Emirati Arabi Uniti, manovrando per far scattare il blocco contro il Qatar, infastidiscono gli Stati Uniti, con il loro riavvicinamento a Bashar Al Assad e la mancata applicazione delle sanzioni contro Russia. Tutto potrebbe evolvere a favore di Abu Dhabi con il ritorno di Trump che vuole solo una cosa: una pace di facciata che non significhi conflitto aperto. Ovviamente, la questione dell’influenza complessiva dei restanti rappresentanti di Teheran, le milizie iraniane filo-sciite in Iraq e gli Houthi nello Yemen, rimane irrisolta.
Quel che è certo è che il nemico numero uno di tutti questi paesi della regione, l’Iran, non vede di buon occhio il ritorno di Trump, e negli ultimi mesi è rimasto relativamente moderato nelle sue risposte, per non mettere in contrasto e indebolire la candidata democratica Kamala Harris, che non si sarebbe dimostrata così ferma e intrattabile con lui.
Quindi, in sintesi, dal 20 gennaio, la tripletta nella regione sarebbe: cessazione dei bombardamenti israeliani su Gaza e in Libano, ritorno alla normalità il più rapidamente possibile e blocco dell’Iran per finire di indebolire Hamas e Hezbollah. Si tratta di una soluzione praticabile a lungo termine? No, ma come dicono in molti: adottare una strategia da più di sei mesi in Medio Oriente e applicarla è quasi una missione impossibile. La sabbia è troppo mossa lì. Quindi una tregua di quattro anni sarebbe già un miracolo, e non un miraggio.
*Dottore in scienze politiche, ricercatore nel mondo arabo e geopolitica, docente di relazioni internazionali presso l'IHECS (Bruxelles), associato al CNAM Parigi (Defense Security Team), presso l'Istituto di studi di geopolitica applicata (IEGA Parigi), presso Centro nordico per la trasformazione dei conflitti (NCCT Stoccolma) e presso l'Osservatorio Geostrategico di Ginevra (Svizzera).