Mosab Abu Toha è palestinese e poeta. La sua collezione, Quello che troverai nascosto nel mio orecchiopubblicato da Julliard. Di passaggio a Parigi, ci racconta le condizioni della sua scrittura, nata dall’atroce situazione storica del suo popolo, che ha condiviso, fin dall’infanzia, nella sua carne e nella sua anima ferite.
La vostra raccolta, che viene pubblicata in questi giorni in francese, assume subito, per necessità, un carattere unico nel panorama letterario. Non è forse, innanzitutto, perché testimonia la sofferenza vissuta nella tua stessa carne?
Queste poesie parlano di quello che è successo a Gaza, ma anche di quello che sta succedendo oggi. Se scrivo della mia vita, scrivo anche di quella di chi mi circonda. Ciò che accade agli altri accade anche a me. Nella poesia LesioniTorno a questo raid israeliano del gennaio 2009 che costò la vita a sedici miei parenti.
Avevo 16 anni. Ero ferito nella mia carne. Ho ricevuto due pezzi di scheggia. Le cicatrici sono ancora lì. Il dolore non va via. Non sono stato ucciso, ma lo sono stati trenta membri della mia famiglia allargata, inclusi tre cugini di primo grado.
È ovvio che questa terribile esperienza vissuta da te è quella dell’intero popolo palestinese. Non diremmo che la poesia, in questo caso, è più potente nella denuncia rispetto al resoconto scritto o filmato?
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