Paolo Rumiz: “Il 9 maggio si festeggia la Festa dell’Europa e mi chiedo cosa ci sia da festeggiare”

Paolo Rumiz: “Il 9 maggio si festeggia la Festa dell’Europa e mi chiedo cosa ci sia da festeggiare”
Paolo Rumiz: “Il 9 maggio si festeggia la Festa dell’Europa e mi chiedo cosa ci sia da festeggiare”
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Dda trent’anni, da quando l’Occidente ha lasciato la Bosnia alla mercé di uomini d’affari disonesti e criminali, mi occupo di raccontare la storia dell’Europa. Quanto più la sento balcanizzare e quanto più vedo svanire gli ideali dei suoi padri fondatori, tanto più si rafforza in me l’obbligo di invocare questo nome. Europa. Ho riempito teatri, accompagnato orchestre sinfoniche giovanili, esplorato monasteri, risalito fiumi e scalato montagne, dall’Atlantico al Caucaso. Ne ho addirittura scritto, in prosa e perfino in versi, evocando la grande utopia da cui è nata l’attuale alleanza nel secondo dopoguerra.

A contatto con il pubblico è sempre stato facile suscitare l’amore per questa madre comune che è l’Europa, capace di unire le nazioni. La mancanza di risposta è al top. Le istituzioni europee non sono state e non sono ancora in grado di fornire un ancoraggio al bisogno emotivo di appartenenza continentale. Durante il mio peregrinare come narratore, raramente ho sentito la vicinanza delle alte sfere dell’Unione. Bruxelles era troppo impantanata in grovigli di interessi, equilibrismi e negoziazioni con le lobby per comprendere l’importanza politica della vicenda.

Il 9 maggio si celebra la Festa dell’Europa e mi chiedo cosa ci sia da festeggiare. Non molto, secondo me. L’alleanza in cui credevo non è più la stessa. È come se guardassi giù da un abisso da una ringhiera precaria. Oltre a ciò, vedo solo il vuoto. Un vuoto etico, politico, strategico, diplomatico, narrativo, perfino lessicale. Il concetto stesso di “Europa” sembra essersi svuotato del suo significato. Ho la sensazione che, come una depressione meteorologica, questo vuoto di senso generi turbolenze e attiri tempeste. Mostra una terra in balia degli elementi.

Certo, mai avrei immaginato che il mito della giovane principessa Europa rapita da Giove potesse essere tradito da una donna, una donna chiamata Ursula. Per restare al potere dopo le elezioni, il presidente della Commissione ha già invitato al banchetto le forze sovraniste, favorite dai sondaggi; proprio quelli che sognano di svuotare l’Unione dall’interno per farne un’alleanza invertebrata. Con esso la mia terra divenne un patrimonio barattato a fini elettorali. Con essa l’Europa assomiglia sempre più ad una bellezza decaduta, costretta a vendere il proprio corpo sul ciglio della strada.

L’Europa non ha solo nemici esterni, Putin o il radicalismo islamico. Anche il crollo dei nostri valori e la nostra apertura al liberalismo sfrenato rappresentano una minaccia per la nostra alleanza. Le grandi industrie alimentari, farmaceutiche e chimiche, così come i trafficanti di armi, ora fanno quello che vogliono in Europa. Orwell ha assunto il controllo delle istituzioni. Scuola, sanità, trasporti sono al collasso. La povertà aumenta, la protezione sociale crolla. Tranne che in Danimarca, l’immigrazione non trova risposte capaci di conciliare accoglienza e disciplina. I confini tra gli Stati si stanno chiudendo. Il Mediterraneo diventa una barriera. E la parola più tragica del secolo scorso – “nazione” – sta facendo un ritorno devastante.

Se sui suoi manifesti la signora Von der Leyen sfoggia un bel sorriso materno, ciò non rivela che, sotto il suo comando, gli uffici della Commissione, un tempo strumento di consenso democratico, sono stati trasformati in un bunker dove regna l’obbedienza cieca. dove è possibile negoziare in segreto con le aziende farmaceutiche e persino indebolire la legge antitrust, unico freno rimasto all’attuale voracità predatoria dell’economia. Ursula, che ha iniziato il suo mandato rilanciando il Green Deal e lo ha concluso demolendolo, facendo dell’Ue una banderuola. Ursula, soprannominata il “Presidente americano” per la sua cieca sottomissione alla NATO.

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Dietro i litigi tra il presidente e i postfascisti, soprattutto italiani, si nasconde la ricerca di un’alleanza fatale. Quella tra il cuore democristiano dell’Unione, legato alla tecnocrazia delle grandi aziende proprietarie dei media, e un’ideologia storicamente spietata con i deboli, i poveri, i diversi. Proprio quelli che l’economia di consumo considera “superflui” nella filiera produttiva. Il ritorno delle nazioni, in cambio dell’egemonia di McDonald’s.

Si tratta di un patto di reciproca convenienza. Le potenze globali stanno persuadendo i sovranismi ad indebolire l’ultimo baluardo globale di diritti e regole, per respingere un formidabile concorrente e per ottenere, anche qui, libero sfogo nel saccheggio delle risorse e nell’utilizzo del lavoro. Da parte loro, i sovranisti utilizzano i social network, più efficaci di qualsiasi manganello, per persuadere la gente a sottomettersi docilmente, evocando l’esistenza di complotti e stati d’assedio permanenti. Ancora una volta, un tradimento “al femminile”, orchestrato da Marine Le Pen, Giorgia Meloni e dalla stessa Von der Leyen.

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Sento un rombo crescente in questo crepuscolo europeo. Questi sono i tamburi dell’etnonazionalismo, le parole dell’odio che filtrano attraverso TikTok e Facebook. I sovranismi hanno imparato, prima delle altre forze politiche, a sfruttare il potere seduttivo di Internet. Facevano proselitismo tra i minatori, predicando l’ostilità verso la diversità e la necessità di un leader supremo. Ma soprattutto hanno creato nell’opinione pubblica l’idea di un’inevitabile scomparsa della democrazia, al punto da costringere le forze moderate e anche l’inesistente sinistra a stringersi attorno ai sovranisti sul piano linguistico. Domani, anche se la destra non vincesse le elezioni, si ritroverebbe comunque a vincere in termini di discorso e di pensiero medio.

Ipnotizzati da questa “estetica crepuscolare”, i media continuano a sottovalutare i segnali di controtendenza. Sono numerosi, ma raramente fanno notizia. Non abbiamo, quindi, parlato abbastanza dei tre milioni di tedeschi che si sono insediati nelle piazze per svolgere un ruolo di “firewall” contro il ritorno dei nazisti, del formidabile riscatto elettorale dei polacchi contro il nazionalismo necrofilo che li domina da anni, la rabbia dei giovani pacifisti bastonati, o le manifestazioni operaie contro lo sfruttamento del lavoro, lo smantellamento della sanità e del sistema pensionistico.

Non sappiamo ancora come andrà a finire. Tutto dipende da come raccontiamo la storia dell’Europa. Gli intellettuali sono stati troppo silenziosi. Ma il loro compito non è mai stato così chiaro: difendere la parola dalle chiacchiere barbare che la attaccano. È la falsa alternativa tra “britannico” ed “europeo” che ha portato alla Brexit. Sono state le parole dei media a spingere la Jugoslavia nell’abisso. E se oggi Russia e Ucraina rischiano l’autodistruzione in un conflitto senza fine, è anche perché le élite europee non hanno la capacità dialettica, o verbale, di tessere una mediazione. Il discorso è lo stesso per Gaza.

In questa fase si tratta semplicemente di spiegare che il sovranismo è la via più sicura per diventare vulnerabili, per diventare terra di conquista delle multinazionali, e quindi per perdere la propria sovranità. Ricordiamo che a causa del nazionalismo l’Europa si è già suicidata due volte. E che, nelle ore più buie, l’Inghilterra resistette alla valanga nazista grazie al discorso appassionato di un uomo, Winston Churchill. Si tratta di far capire ai bambini quanto sono fortunati, quanto è verde questa nostra terra e quanta nostalgia suscita quando ne siamo lontani. Ripartire dal mito per ricostruire il sogno europeo.

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