Sulla Montagna dell’Ascensione non siamo sognatori

Sulla Montagna dell’Ascensione non siamo sognatori
Sulla Montagna dell’Ascensione non siamo sognatori
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Il parroco di Rochefort, padre Mickaël Le Nézet, commenta le letture della solennità dell’Ascensione. Sul monte dell’Ascensione, Cristo invia i discepoli a unirsi al mondo per essere testimoni della sua Buona Novella.

“Galilei, perché state a guardare il cielo? » Possiamo comprendere la reazione dei discepoli così come ci viene raccontata in questo brano del libro degli Atti degli Apostoli (At 1, 11). Possiamo infatti comprendere questa nostalgia che sale dai loro cuori nel momento in cui Cristo distoglie gli occhi da loro. Come possiamo infatti accettare di passare da una vita così intensa con Lui, lasciandoci trasportare, lasciandoci guidare e istruire da Lui, a una vita senza di Lui, senza questa presenza carnale così forte per ciascuno di coloro che lo hanno seguito? In un certo senso, finché Cristo era al loro fianco, sapevano di avere fiducia. Al loro fianco, Cristo ha saputo aiutarli a mettere in prospettiva ciò che c’era da mettere in prospettiva, raccontando loro l’essenziale. Accanto a lui ci sentivamo sicuri, quasi senza paura, né del futuro, né delle prove della vita quotidiana poiché Cristo aveva questo modo di essere, così personale da consolare, lenire, confortare, sostenere, come del pastore vicino ai suoi pecora. Guardando il cielo, i discepoli sono immersi come in un sogno, come se volessero restare lì per non dover affrontare nuovamente questo mondo divenuto per loro ostile, forse addirittura angosciante, comunque indifferenti, lontani da ciò che avevano potuto sperimentare scegliendo di lasciare tutto per Cristo.

Come accettare di passare da una vita così intensa con Lui a una vita senza di Lui, senza questa presenza carnale così forte per ciascuno di coloro che lo hanno seguito?

Fare della religione un rifugio?

Non possiamo fare a meno di dirci, guardando ancora una volta i discepoli, che finalmente siamo così vicini a loro. Di fronte alle difficoltà della vita, di fronte alle prove a volte così pesanti della vita quotidiana, di fronte se non all’ostilità almeno all’indifferenza del nostro mondo verso le cose di Dio e le verità della fede, non dobbiamo forse anche noi rischiare di sognare un altro mondo più sicuro, più rassicurante, meno faticoso? E non si correrebbe allora il rischio di fare della religione una via di fuga, facendoci sprofondare nella nostalgia di un mondo più bello di cui non siamo nemmeno sicuri sia mai esistito? Possiamo infatti fare della religione, come i discepoli rivolti al cielo, un rifugio lasciandoci trasportare dagli odori dell’incenso che ci farebbero dimenticare la realtà meno inebriante. E qualcuno non mancherà di farcelo notare, presentando la religione come l’oppio dei deboli e dei fragili.

Pascal Deloche/Godong

Ma ora la Parola di Dio in questa festa ci spinge fuori dai nostri sogni ad occhi aperti. Ci spinge e ci chiama. “Perché stai lì a guardare il cielo? » Non posso non citare una parola del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer: «Noi cristiani, abbiamo la forza di testimoniare al mondo che non siamo sognatori e che non camminiamo sulle nuvole; che la nostra fede non è l’oppio che ci lascia beati nel cuore di un mondo di ingiustizia? » Sul monte dell’Ascensione, Cristo invia i discepoli a unirsi al mondo per essere testimoni della sua Buona Novella. La contemplazione del cielo, cioè di questa vita di Dio manifestata agli uomini da Cristo, ha senso solo se ci rimanda sulla terra per offrire questa vita di Dio a tutta l’umanità. La Chiesa non esiste per se stessa ma per il mondo e l’istituzione non è fine a se stessa ma al servizio di questa Buona Novella da diffondere su tutta la terra.

La contemplazione del cielo ha senso solo se ci rimanda sulla terra per offrire questa vita di Dio a tutta l’umanità.

Dove Dio ci aspetta

Ciò che ci viene riproposto in questa festa dell’Ascensione è la missione di ogni discepolo di Cristo. La nostra attesa della venuta del Regno di Dio non può che essere un’attesa attiva. E il nostro compito è grande. Dove siamo, si tratta di ripetere che Dio non abbandona questo mondo, che non lo rifiuta, che non lo disprezza né lo condanna ma che gli offre la speranza in un cammino di vita che lo conduca alla pienezza. Sì, la nostra responsabilità è grande perché si tratta, come siamo, con quello che siamo, di rispondere alla volontà di Dio che la terra diventi cielo, per usare un’espressione di Benedetto XVI, cioè dire che la nostra umanità va verso una giustizia e una pace sempre maggiori, nel rispetto di ogni essere umano, nell’opera di riconciliazione tra gli uomini, nella costruzione di un’umanità più fraterna, più unita. È qui che Dio ci aspetta; qua e là prima. Ancora una volta la Chiesa non esiste per se stessa ma per questo mondo a cui Dio ha scelto di unirsi inviando il suo Figlio unigenito, Salvatore del mondo.

“Riceverai forza”

Naturalmente possiamo sentirci piccoli di fronte a una simile missione. Piccolo e probabilmente molto povero per rispondere generosamente. Credi che le cose fossero evidenti per i discepoli, che sapevano di essere sorvegliati dalle autorità romane? Anche loro avevano paura, anche loro si sentivano impotenti di fronte alla grandezza del compito. Ma avevano ascoltato la promessa fatta da Cristo sul monte dell’Ascensione: “Riceverete forza quando lo Spirito Santo scenderà su di voi. Allora mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Questa promessa è anche per noi. Dio ci darà ciò di cui abbiamo bisogno per compiere la nostra missione. In questi giorni che precedono la Pentecoste chiediamo con insistenza, nella nostra preghiera, questa forza dello Spirito Santo per annunciare ovunque il Vangelo, come Egli ci chiede.

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