Davanti alla grande moschea di Mamoudzou, pochi fedeli osservano con gli occhi socchiusi il via vai della piazza. Uno scooter si ritorce contro, i vicini litigano per recuperare un pezzo di lamiera abbandonato, ciascuno sostenendo di averlo notato per primo. Più in alto sulla collina, dove l’elettricità non è ancora stata ripristinata, nelle baraccopoli sono ripresi i combattimenti tra cani, un passatempo popolare tra alcuni gruppi di giovani. Ahmed Djounaidi, comandante di una chiatta in pensione, si alza per salutare i giornalisti diretti alla moschea. Non si ferma nemmeno tre settimane dopo il ciclone Chido, che ha devastato l’isola il 14 dicembre 2024. Anticipando eventuali domande, Djounaidi lancia beffardamente: “So quello che vuoi: cerchi i morti. Ma guardaci, siamo vivi. Vivo e vegeto. »
Vivo ! Era la stessa parola che era venuta alle labbra di Hadj, musicista, nel famoso giorno di Chido, intorno alle 14, quando l’uragano sembrava essersi calmato. Aveva appena trascorso ore, con i suoi nipoti, ammucchiati uno sull’altro, formando, per affrontare le raffiche, un’improbabile piramide umana, alla quale una capra si era invitata, tanto per buona misura. Hadj, 40 anni, era tutto sotto, inchiodato a terra: è così magro che l’uragano avrebbe potuto portarlo via, ne erano certi i suoi parenti. Quando il musicista finalmente si avventurò fuori, si ritrovò di fronte a un quadro da apocalisse: ettari di lamiere sminuzzate, capanne polverizzate, baraccopoli schiacciate come da mascelle mostruose. “Tutti gli altri devono essere morti, siamo gli unici a essere salvati. Come nei film»Aveva pensato Hadj. Ma, in mezzo alle macerie, ha visto emergere un uomo con tre bambini in braccio, tra cui un neonato. Tutto sano e salvo. “Non potevo crederci, pensavo fosse un’apparizione”continua Hajj.
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