M6 – MARTEDÌ 12 NOVEMBRE – ORE 21:10 – SERIE
Cinque stagioni di Ufficio delle leggende ci avevano fatto credere che l’arte dell’intelligence sostiene la trasparenza, che si potevano smantellare i meccanismi e gli affetti che governano la vita degli agenti segreti, farne belle storie pur essendo perfettamente informati sulla realtà della professione.
Quattro episodi di Spie del terrore riportarci ai nostri sensi. Questa finzione ispirata all'inchiesta del giornalista Matthieu Suc (HarperCollins, 2020) è perennemente ostacolata dalla realtà, quella del lavoro dei servizi francesi nelle settimane e nei mesi successivi agli attentati del 13 novembre 2015 a Saint-Denis e Parigi. Dobbiamo attendere pazientemente che il lavoro degli attori e la regia di Rodolphe Tissot gli permettano di trovare una verità diversa da quella della storia, quella della finzione.
In programma, lunghi incontri alla Direzione generale della Sicurezza esterna (DGSE) e alla Direzione generale della Sicurezza interna (DGSI), altri incontri tra i due servizi, che non hanno le stesse priorità. L’intelligence esterna vuole eliminare gli ufficiali dell’organizzazione Stato islamico (Daesh), come richiesto dal potere politico, mentre l’intelligence interna vuole prevenire nuovi attacchi, anche se ciò significa arrestare un po’ troppo presto i sospetti che potrebbero condurre ai loro superiori.
Procedure noiose
Per rendere drammatiche, addirittura tragiche, queste procedure, spesso noiose, dobbiamo riuscire a incarnarle. Per molto tempo la serie ha lottato per trovare l'equilibrio tra i vincoli del relativo rispetto dei fatti e le necessità dell'arte drammatica.
I due principali servizi di intelligence sono interpretati da donne, Malika Berthier (Rachida Brakni) per la DGSE, Lucie Kessler (Fleur Geffrier) per la DGSI. Madre, il soldato è sposato con un medico dei vigili del fuoco di Parigi che soffre di stress post-traumatico; la poliziotta vive una storia d'amore incerta con un collega dello stesso dipartimento (Pierre Perrier). Queste notazioni inizialmente ingombrano il racconto, apparendo come deviazioni obbligate, intrapresi per affermare l'umanità delle persone responsabili di compiti disumani.
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Dobbiamo fare una deviazione a Lille, dove il maggiore Vincent Morin (Vincent Elbaz) controlla il movimento jihadista. Lì recluta Saïd (Rachid Guellaz), che afferma di poter fornire informazioni in cambio di aiuto per rimpatriare il fratello minore impegnato nelle fila dello Stato Islamico. Misurando con estrema precisione le motivazioni del suo carattere (riconoscimento sociale, profitto, solidarietà familiare, senso civico), Rachid Guellaz porta verso l'alto tutto questo aspetto della storia.
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