il modello italiano, essenziale ma fragile, dei “collaboratori di giustizia”

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Il magistrato italiano Giovanni Falcone (secondo da sinistra), artefice della dottrina antimafia del Paese, circondato da guardie del corpo armate, arriva a Marsiglia il 21 ottobre 1986 per incontrare i suoi omologhi francesi. GERARD FOUET/AFP

Sono un migliaio, sparsi per tutta la penisola italiana, lontani dalla loro provincia d’origine e dai luoghi in cui hanno commesso i loro crimini. Sul campanello, un nome falso. Quando testimoniano a un processo, lo fanno da un bunker sicuro, senza far vedere il loro volto. I collaboratori di giustizia, detti anche “pentiti” (pentirsi), sono da oltre trent'anni protagonisti delle inchieste contro la mafia in Italia. “Gli indispensabili”secondo i magistrati specializzati. “traditori”per i loro detrattori. Sono anche “morti che camminano”come dice un'espressione popolare, le loro vite sono appese a un filo quando decidono di infrangere il codice del silenzio.

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La storia dei collaboratori di giustizia risale agli anni di piombo, quando la violenza politica minacciava lo stato di diritto, negli anni Settanta. Il primo quadro giuridico, definito nel 1980, era quindi dedicato ai casi di terrorismo. Fu esteso dieci anni dopo alla criminalità organizzata sotto l'egida del magistrato siciliano Giovanni Falcone, artefice della dottrina antimafia del Paese. Aveva sperimentato questo sistema con una cavia di prima scelta: Tommaso Buscetta, detto il “capo di entrambi i mondi”questo capo di Cosa Nostra tornò dall'America per raccontare tutto dei suoi ex complici. Le sue confessioni portarono al grande processo di Palermo, nel 1986-1987, dove furono condannati 360 mafiosi.

La collaborazione applicata alla criminalità organizzata è progressivamente diventata un sistema precisamente codificato, distinguendo tra magistrati-confessori da una parte e il Servizio centrale di protezione, incaricato di vigilare sugli individui entrati ufficialmente nel sistema, dall'altra. « programma »In totale sono più di 5.000 le persone interessate, tra cui familiari stretti, ma anche una sessantina di “testimoni di giustizia”, cittadini che hanno scelto di denunciare gli atti mafiosi.

“Far luce su realtà criminali opache”

Le regole sono chiare: una volta presa la decisione di collaborare, il prigioniero ha centottanta giorni per convincere gli altri della sua buona volontà e della pertinenza delle sue rivelazioni. Le informazioni devono essere ” notizia “, “completare” e “decisivo”In cambio, può ottenere una riduzione della pena, misure di protezione per sé e per la sua famiglia (ricollocamento, anonimato, ecc.), nonché un reddito mensile di circa 2.000 euro a nucleo familiare. Al minimo errore, al minimo vuoto di memoria, viene rispedito in cella. È quanto è appena accaduto a Francesco Schiavone, storico boss del clan di Casal di Principe, appartenente alla camorra, pentito a 70 anni, che non ha convinto i magistrati napoletani dopo tre mesi di interrogatori.

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