Libro: Andreas Beyer interroga “Il corpo dell’artista”

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Andreas Beyer interroga “Il corpo dell’artista”

Pittori e scultori non sono solo anime belle. Mangiano, bevono, dormono, sognano e si ammalano. Un viaggio da Dürer a Van Gogh.

Pubblicato oggi alle 10:43

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Gli artisti dovrebbero vedere un’anima bella. La cosa impedisce loro di avere un corpo. Questa idea romantica è dura a morire. Riflette una visione eterea della pittura e della scultura, sia “mentale” che non fisica. Un’idea gratificante perché astratta. Una falsa idea, tuttavia. Per convincersene basta leggere “Il corpo dell’artista” di Andreas Beyer (2022), di cui Actes Sud pubblica in questi giorni la traduzione francese. L’opera fa quindi parte della raccolta “Les apparenze” di Jérémie Koering, lui stesso autore di un affascinante “Les iconophages” di cui vi avevo parlato nel 2021. Sì, possiamo vederci portati a divorare immagini pulite!

Uno degli innumerevoli autoritratti di Egon Schiele nudo.

Professore di storia dell’arte moderna (intendendo gli anni dal 1500 al 1800) all’Università di Basilea, Andreas Beyer ci mostrerà con l’esempio che gli artisti visivi dell’età classica vestivano, mangiavano, digerivano (bene o male), si ammalavano o si deprimevano, dormito e sognato. Non avevano paura delle parole dure o delle carni ben cotte. “Nelle mie opere cago sangue”, non esitò a scrivere Michelangelo, senza dubbio il più spirituale dei maestri del Rinascimento. A differenza di tanti colleghi, il toscano condusse una vita sobria, se non frugale, che gli permise di arrivare in buone condizioni a 89 anni. Solo una piccola passeggiata a cavallo la sera. Per il resto una vita lavorativa segnata da una forte amicizia (con Vittoria Colonna) e da una duratura passione romantica (per Tommaso di Cavallieri).

Per poter entrare in tema, Andreas Beyer ha dovuto approfittare di vite famose, in genere delle loro sofferenze. Per fortuna Vasari, il “padre” della storia dell’arte, non distingueva ancora il corpo dall’anima nelle sue impareggiabili biografie pubblicate nel 1550, poi nel 1568! Da lui sappiamo che Piero di Cosimo, considerato eccentrico dai suoi contemporanei, viveva di uova sode, rinchiuso in casa prima che una paralisi parziale mettesse fine alla sua attività. La cosa non era necessariamente vista come negativa. In Italia fin dall’inizio del XVI secolo era accettato che i grandi artisti fossero dei geni, e quindi individui come nessun altro. Dovevano distinguersi dalla massa. L’autore descrive così in dettaglio un autoritratto di Albrecht Dürer, utilizzato sulla copertina del suo libro. Il tedesco porta la barba, cosa che non veniva fatta negli anni Novanta del Quattrocento. I suoi capelli ricci risultano di una lunghezza allora considerata irragionevole. È probabile che anche i suoi vestiti a strisce bianche e nere facciano voltare le persone al suo passaggio.

Ritratto di Michelangelo di Daniele di Volterra. Simbolicamente il pittore si concentrò solo sulla testa e sulle mani.

Naturalmente non tutti gli artisti del passato si comportavano così. Alcuni appaiono perfettamente “normali”. Non c’è quindi nulla, o quasi, da dire su Raffaello, considerato per secoli l’esempio del genio. I suoi scritti superstiti non indicano alcuna particolarità, anche se Vasari insinua che morì a 37 anni nel 1520 per essersi lasciato trasportare troppo. Di Dürer, di cui sopravvivono la corrispondenza e un diario, sappiamo invece quasi tutto. Il suo rammarico per non essere arrivato in tempo alla morte di suo padre. Il suo dolore quando la sua vecchia madre morì. Il suo rapporto difficile con una moglie che non aveva scelto. La sua paura delle malattie che a volte gli fa rappresentare se stesso come un Cristo sofferente. L’attenzione che rivolge al proprio corpo, visto come un involucro esterno potenzialmente nemico. Lo disegna nudo pezzo per pezzo con un piccolo specchio (all’epoca non ce n’erano di grandi) con la stessa violenza che Egon Schiele avrebbe usato nei confronti dei suoi 400 anni dopo.

Uno dei disegni tratti da “La Vita di Taddeo Zuccari del fratello Federico. È qui come apprendista di un maestro che lo sta facendo morire di fame. Il cesto con campanelli sul soffitto contiene il cibo.

Tuttavia, alcuni artisti classici tendono a superare i limiti imposti loro da una società molto più tollerante di quanto credono. Ci sono alcune pagine ne “Il corpo dell’artista” che parlano di Jacopo Pontormo, che lasciò uno stranissimo diario negli anni Cinquanta del Cinquecento a Firenze. Questa è la storia di qualcuno ossessionato dal cibo e dalla sua digestione. Chiuso in se stesso, l’uomo (il cui successo era in declino) somatizzava le sue inquietudini, mentre eseguiva in San Lorenzo affreschi che ebbero scarsa accoglienza (scomparvero nel XVIII secolo). Solo una persona condivide con lui alcuni momenti. Questo è il suo allievo Bronzino, che divenne il più grande ritrattista del suo tempo. Il discepolo viene a confortare il maestro in difficoltà e ad alzargli un po’ le cinghie. Ci sono infatti suicidi tra gli artisti, anche se Andreas Beyer alla fine ne ha registrati pochi, la morte viene generalmente dichiarata accidentale per poter beneficiare di una sepoltura. Beyer cita però il caso dell’architetto ticinese Francesco Borromini, che morì dopo alcuni giorni di agonia avendo avuto il tempo di pentirsi, e quindi di essere assolto.

La follia può anche essere in agguato. Si tratta certamente di una malattia mentale, ma non solo nella misura in cui diventa una privazione della libertà. Citiamo ovviamente in questo caso Vincent Van Gogh e il manicomio di Saint-Rémy. Andreas Beyer preferisce parlare di Hugo van der Goes, al quale Berlino ha appena dedicato una splendida retrospettiva. Esiste infatti una cronaca del pittore fiammingo, morto nel 1482, scritta da un monaco di nome Gaspar Ofruys, dove sono raccontati tutti gli aspetti dei suoi disturbi cerebrali. È la discesa nell’oscurità, con qualche remissione, di un artista considerato eccezionale.

Dürer si disegna nudo, non senza preoccupazione, utilizzando un piccolo specchio.

Ci sono ovviamente molte altre cose in quest’opera fittissima basata su una bibliografia lunga quanto un braccio (25 pagine in caratteri piccolissimi). I testi liminali si rivelano un po’ difficili. Il lettore non deve scoraggiarsi. Intitolato “Exemplum”, il sedicesimo capitolo può essere letto tutto d’un fiato. Beyer ci racconta qui la vita di Taddeo Zuccari, morto giovanissimo, sulla base dei disegni del fratello minore Federico che poi successe al suo posto non senza rimorsi. È la storia di un giovane che ha fame, che ha freddo, che è malato, che viene maltrattato e che finalmente sfonda nella Roma degli anni Cinquanta del Cinquecento prima di spegnersi a 37 anni, età fatale per i pittori” (1) Avendo Divenuto ricco e famoso, gestendo un’accademia per giovani artisti bisognosi, Federico intendeva trasporre questa storia sulle pareti del suo palazzetto (ancora esistente). Pressato da ordini da Milano a Londra via Madrid, non lo farà mai…

(1) Raphaël, Eustache Le Sueur, Watteau e Van Gogh morirono a 37 anni.

Pratico

“Il corpo dell’artista” di Andreas Beyer, tradotto da Jean Torrent, per le Editions Actes Sud, 297 pagine stampate molto fitte.

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Nato nel 1948, Etienne Dumont studiato a Ginevra che gli furono di scarsa utilità. Latino, greco, diritto. Avvocato fallito, si dedicò al giornalismo. Molto spesso nelle sezioni culturali, ha lavorato dal marzo 1974 al maggio 2013 alla “Tribune de Genève”, iniziando parlando di cinema. Poi vennero le belle arti e i libri. Per il resto, come potete vedere, nulla da segnalare.Maggiori informazioni

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