L’autunno delle nostre lacrime / Creare di fronte all’indicibile? – ???? Informazioni libertarie

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L’autunno delle nostre lacrime / Creare di fronte all’indicibile? – ???? Informazioni libertarie
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Balbuzienti e asmatici,

Ebrei dall’altra parte

Queste elezioni che uccidono

E chi ti rende colpevole

Del suo stesso omicidio.

L’ingiunzione di dire ciò che non siamo per poter dire chi siamo. Tautologia, un sistema chiuso, un sistema che si morde la coda. È questo ciò che significa essere ebrei?

Cancellati da noi stessi in abbreviazioni mortali, dissolti nello sguardo degli altri, siamo diventati scorciatoie. E a volte siamo accettati come tali. Né vittima né bellicosa, la saggezza ebraica ci impone tuttavia di tenere la testa alta e le armi basse. E continua. Combattere, nei deserti, con e per la vita. Questi deserti del pensare, degli altri e di sé stessi, dello studiare i vuoti e gli abissi invece di riempirli con i succhi dell’odio che tutto corrodono. Scegliere la differenza, la sfumatura e il sospetto rispetto alla violenza.

Ma questi eventi ci hanno reso la lingua pesante e il fiato corto. Inoltre non ce n’è più Noi in questo presente. Questo presente dove “solo gli occhi sono ancora capaci di emettere un grido” nelle parole di René Char. Tutto ciò che ci resta sono le nostre lacrime.

Sconvolgimento. Il nostro mondo, già non strutturato, si è incrinato. Come possiamo ancora leggere la Torah, di cui uno degli ultimi passaggi, Choftimci ha richiesto all’inizio e alla fine di cercare “giustizia e soltanto giustizia”. Così come non distruggere l’albero da frutto, perché «l’albero del campo è l’uomo stesso», quando tutt’intorno ruggisce una carneficina incessante?

Non sembra più compito dell’ebreo avere un pensiero misurato senza essere esortato ad assumersi la responsabilità di una guerra che non è sua. E di cui dovrà pagare il prezzo. Di una guerra di cui sarà ritenuto responsabile se il suo linguaggio non adotta un linguaggio corretto, compreso e brutale. Tuttavia, dirlo così com’è va contro i principi del giudaismo. Questi principi che ispirano a sondare la verità nella contraddizione, nella fessura dove talvolta si svela solo il senso, a dibattere e a confrontarsi, in uno sguardo di destra -, in una lotta incessante contro il silenzio, la stupidità muta e morto. E non chiuderemo mai gli occhi di fronte alla catastrofe umanitaria e ai crimini di cui un governo irresponsabile e miope continua a essere responsabile.

Così, più volte, la questione del significato della creazione si pone, riposa e diventa grottesca. Con questo evento sepolto sotto il disordine dell’astoricità, dell’anamorfosi politica e del diluvio di fiamme, non è forse il senso stesso a crollare? Non sono altro che brandelli che volano come queste ceneri che vediamo cadere ogni giorno, di cui ci riempiamo la bocca e nella quale finiremo.

A cosa serve l’arte? La questione stessa di mettere in prospettiva questo evento indicibile e l’idea di creazione artistica sembra assurda. A che serve l’arte quando le vite dei civili continuano ad essere annientate seguendo l’implacabile macchina della logica del colpevole e dell’evitamento di un pensiero di soluzioni.

Viviamo in un mondo in cui il pensiero umanista sembra non essere altro che un lusso borghese, improprio e scandaloso. La complessità odierna non deve però privarsi di una tensione verso la giustizia. Orientati, se non verso il prossimo, il prossimo, e tutto questo campo lessicale che la realtà ha messo sul banco dell’ingenuità idealistica, ma verso il volto dell’altro che non è altro che lo specchio di sé stessi. Uscire dalla propria pseudo-totalità per aprirsi al rapporto con gli altri, alla manifestazione del proprio volto, questo è ancora ciò che spetta all’uomo. Perché «vedere un volto è già sentire: “non uccidere”» dobbiamo affermare seguendo Levinas. Quando uccidiamo gli altri, uccidiamo noi stessi.

Vorremmo un mondo in cui l’impulso alla violenza trascendesse nella furia di pensare, creare, apprendere e condividere. Ma potremmo rispondere: come pensare sotto le bombe? Di fronte all’atroce. E in un momento di distruzione di tutto? Come osiamo avanzare questa richiesta?

L’unico punto di ancoraggio, e di infinito rammarico, è il numero di voci di cui il mondo sarà privato. Queste voci di ieri, di oggi e di quelle a venire che avrebbero potuto esistere. Bambini distrutti e bocche che la violenza del presente pietrificherà per sempre.

Sono anche i legami di amicizia tesi, tagliati all’improvviso come tendini, che ci impediscono di camminare. Senza i nostri fratelli, con i quali l’accordo è stato rotto da una parola mal detta o fraintesa riguardo ad avvenimenti di cui la responsabilità non è di nessuno, o di tutti.

Come troveremo ora la forza di condividere noi stessi?

John Donne scrive nella sua poesia stregoneria mediante un’immagine

“Tengo i miei occhi fissi nei tuoi, e lì,

Ho pietà di chi arde nei tuoi occhi, la mia immagine;

Guardando in basso, la vedo annegata

In una lacrima trasparente»

Rifiutiamoci ora di permettere che l’immagine dell’ebreo venga bruciata agli occhi degli altri. Né che d’altronde resta più di una lacrima in fondo ai nostri occhi, in un eterno autunno di lacrime.

Questa non è una denuncia ma un appello. All’altro e a se stessi. Tutto questo deve finire.

Affinché qualcosa possa finalmente iniziare.

Guillaume Herment-Berrebi

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