Sullo schermo gioca alla grande con il suo carisma, i suoi silenzi, la sua intonazione di voce e la sua propensione a incarnare esseri al lavoro, mascolinità ruvide e fragili allo stesso tempo. Vincent Lindon è il professionista, il borghese retrocesso, il dirigente maltrattato dal suo management, il bagnino che interviene in aiuto di un migrante afghano o un insegnante che prende sotto la sua protezione un giovane rom. In Gioca con il fuocoil terzo bellissimo lungometraggio di Delphine e Muriel Coulin, tratto dal romanzo di Laurent Petitmangin, Che danno è necessariot (La Manifattura del Libro), interpreta Pierre, vedovo e ferroviere della catenaria. Questo Messin, padre di due figli, Fus (Benjamin Voisin) e Louis (Stefan Crepon), scopre, sgomento, i legami del primo con membri di un gruppo identitario mentre il secondo si prepara a proseguire gli studi a Parigi.
In questo dramma familiare in cui le devastazioni della deindustrializzazione alimentano le peregrinazioni politiche di una parte dei giovani, le sorelle cineaste mettono delicatamente le cose in chiaro. L’estrema destra non è diventata accettabile e continua a minare le basi della democrazia. Senza colpirlo, riescono a trovare il tono giusto e offrono a Vincent Lindon un nuovo ruolo importante, premiato con un premio per la recitazione a Venezia. Oltre alle scelte professionali che parlano per lui, le sue posizioni forti e memorabili lo hanno consacrato tra le figure popolari dell’artista impegnato.
Durante il Covid, affronta in un lungo testo (“Come è così ricco questo Paese…”), letto davanti alla telecamera, la politica sanitaria di Emmanuel Macron. A Cannes, presidente della giuria del Festival, mette in discussione il ruolo dell’artista e approfitta della piattaforma per discutere dei tormenti del mondo. Stessa cosa a Carcassonne dove è invitato al Festival del cinema politico. Certo, a volte è goffo, a volte un po’ troppo con la sua traboccante generosità, ma incontrare l’attore Vincent Lindon è la certezza di avere un ascoltatore, pronto a riprendersi, a protestare e anche ad acconsentire.
La radicalizzazione politica fa da sfondo al film…
Non è solo sullo sfondo, è completamente lì, anche se il film non ne mostra quasi nulla. Ho sempre pensato che il pubblico fosse molto intelligente. Voglio dargli spazio per pensare. Non si tratta solo di fare film in cui ti coinvolgi e denunci. È ancora importante non dare lezioni. Ci sono due storie: la radicalizzazione di uno dei due fratelli che si avvicina a un piccolo gruppo violento di estrema destra e quella di una famiglia devastata che non sa come gestirla.