Con il Joker il cinema hollywoodiano rivisita la figura del pazzo

Con il Joker il cinema hollywoodiano rivisita la figura del pazzo
Con il Joker il cinema hollywoodiano rivisita la figura del pazzo
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La seconda parte della serie Burlonediretto da Todd Phillips, che offre un’escursione “a due” nell’universo psicopatologico del nemico più famoso di Batman, ci invita a interrogarci sul posto occupato dalla figura del pazzo, del pazzo o del malato di mente nell’universo della finzione cinematografica.


A partire dagli albori del cinema, che coincidono proprio con l’emergere della psicoanalisi, da un lato, e con lo sviluppo della psichiatria moderna (nata all’incirca a metà dell’Ottocentoe secolo) dall’altro i malati di mente, preferibilmente internati, davano luogo a rappresentazioni di vario genere.

Notiamo anzitutto le rappresentazioni carnevalesche, addirittura grand-guignolesche, come nel primissimo film “psichiatrico” mai realizzato, Il sanatorio del dottor Dippy (1906) o nell’adattamento cinematografico del 1913 di Maurice Tourneur de “Il sistema del dottor Goudron e del professor Plume”, racconto di Edgar Poe che racconta, sotto l’occhio divertito del suo sospettoso narratore, un capovolgimento insurrezionale all’interno di una “casa della salute” dove i pazzi presero il controllo del manicomio e misero sotto chiave gli operatori sanitari.

Il film Asilo, specchio del mondo

Le finzioni cinematografiche sull’asilo hanno spesso assunto questo topos del manicomio come un microcosmo dell’inversione dell’ordine normale del mondo, invitando lo spettatore a osservare, dalla lontana comodità della sua poltrona cinematografica, universi la cui irragionevolezza è diventata la parola chiave.

Ovviamente possiamo pensare a titoli come La casa del dottor Edwardes di Alfred Hitchcock (1945), dove la clinica psichiatrica diventa il luogo di un’indagine mozzafiato specifica del maestro del thriller psicologico. Ci sono anche titoli più impegnati politicamente come Testa contro le mura di Georges Franju (1959), Corridoio shock di Samuel Fuller (1963) e Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman (1975), film esemplare del genere per quasi mezzo secolo, dove l’intera istituzione psichiatrica viene denunciata come struttura carceraria e mortale, secondo la tesi della “Grande Recinzione” sviluppata all’inizio da Michel Foucault degli anni Sessanta e ampiamente adottato dall’industria cinematografica, che ha trovato nell’ambientazione cinegenica del manicomio un’unità di luogo specifica per una drammaturgia efficace come attestano esempi recenti, come Isola dell’otturatore di Martin Scorsese (2010) o Il ballo della pazza di Mélanie Laurent (2021).

Soggettivazioni irregolari

Più complessa, più torbida e più rischiosa è forse la questione della rappresentazione del malato di mente inteso come soggetto, un “paziente” più o meno impaziente e, soprattutto, più o meno malleabile a seconda delle intenzioni dei cineasti.

Indiscutibilmente dall’inizio degli anni ’60 e dall’invenzione del “caso” Norman Bates (Anthony Perkins) da parte di Alfred Hitchcock nel Psicosiil malato di mente – preferibilmente definito “schizofrenico” in disprezzo della complessa realtà di questo grave disturbo psichiatrico – appare come un personaggio pericoloso, impulsivo e violento, incline all’omicidio. Una rappresentazione efficace ma fallace dello psicotico come pericoloso pazzo, culminata nei film horror sugli psico-assassini degli anni ’70 e ’80.

Ha lasciato tracce indelebili nella stigmatizzazione del malato di mente, ancora ampiamente percepito nell’immaginario collettivo come individuo potenzialmente violento. Titoli abbastanza recenti come Diviso di M. Night Shymalan (2016) continuano a trasmettere questo cliché, sebbene sia abbastanza lontano dalla realtà clinica dei pazienti affetti da disagio mentale.

È proprio la considerazione della dimensione patologica della malattia mentale che manca in molti film che descrivono la catastrofe soggettiva e simbolica della psicosi. È, tuttavia, essenziale se vogliamo accedere – una sfida forse impossibile da mantenere – al dolore degli altri e all’infinita turbolenza delle soggettività fallimentari attraverso la “rete della finzione” (JM Gaudillère), in questo caso filmica. Di recente, film come Ragno di David Cronenberg (2001), Keane di Lodge Kerrigan (2004), Prendi rifugio di Jeff Nichols (2005) o anche Rondine (Mirabella-Davies, 2019) ha dimostrato che è possibile costruire tali storie senza necessariamente passare attraverso uno spettacolare tripudio di violenza o effetti spaventosi.

Il Joker e i suoi punti di forza

Il caso di Burlone merita una considerazione speciale. Principale antagonista di Batman nello strano e inquietante universo di Gotham City inventato dai creatori della DC Comics negli anni ’30, il Joker è una potente figura di squilibrio mentale, i cui sbalzi irrazionali minacciano di mettere in pericolo l’intera umanità. Il Joker, smorfia annunciatore di una psicopatologia sociale generalizzata, porta con sé un irrefrenabile desiderio di apocalisse. Nel corso della sua lunga carriera cinematografica, ha sperimentato molteplici incarnazioni, spesso rivelando un certo spirito del tempo.

Pensiamo in particolare a quello giubilante e barocco di Jack Nicholson (il paziente impaziente di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman) nel Batman di Tim Burton (1989). O quello, più incontrollabile e ansiogeno, di Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan (2007), dove appare nelle vesti di un Heath Ledger sovralimentato con un sorriso ugoliano.

Più recentemente, è l’attore-camaleonte Joaquin Phoenix nel film Burlone di Todd Philips (2019), prima parte della nuova saga, che ha dato un’immagine nuova e indiscutibilmente patologica di questo personaggio immaginario e metaforico, navigando tra l’impulso della distruzione di massa e gli abissi della psicosi.

Anche se era già successo che la messa in scena della follia più spettacolare avesse trionfato al botteghino e nell’intera industria cinematografica, come nel caso dell’Oscar vinto da Natalie Portman per la sua interpretazione in Cigno Nero di Darren Aronofsky nel 2009, il successo del primo film di Phillips coronato a Venezia nel 2019, così come quello della sua seconda opera, ci invitano a pensare al Joker in modo diverso rispetto a un semplice “supercattivo” in un film di supereroi che, ovviamente, , non è uno.

Il Joker non è divertente. Nemmeno lui è pazzo. È malato. Sofferenza. Nel primo film Phillips, scoppiato in una risata irrefrenabile sull’autobus, brandisce la sua tessera di invalidità come la “condizione” stessa del suo disordine interno, che a poco a poco si estenderà a tutta la città. Ma è anche un burattino in una società beffarda che non riesce ad accoglierlo.

Niente di fantastico qui, tanto meno di soprannaturale; l’orizzonte supereroico è tenuto a bada. È quindi rivelatore che, a differenza di quanto accade negli altri titoli della serie Batman che lo mobilitano, il Joker si evolve in un ambiente urbano molto meno “gotico” di quello scorsesiano, ricordando il decadimento del mondo che circonda Travis Bickle, il personaggio interpretato da Robert De Niro nel Tassista (1975).

Questa è l’ambiguità fondamentale del Joker: intrappolato dalla sua sofferenza psicologica e dall’universo che gli crolla attorno, non può essere classificato in una categoria fantastica. In Arthur Fleck, l’embrionale Joker, c’è un’economia della sofferenza soggettiva che si scontra con le convenzioni generiche di un film ingannevolmente presentato come appartenente proprio a un genere dalle convenzioni consolidate. Questo contrasto con le aspettative di una certa parte del pubblico si ritrova anche, e in modo più marcato, nel micidiale tango della “folie à deux” proposto dal secondo film di Todd Phillips, che possiamo pensare disorienterà maggiormente un appassionato del genere.

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