Mosab Abu Toha, il poeta che parla dei mali di Gaza

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Mosab Abu Toha, a Parigi, il 18 novembre. LUCAS BARIOULET PER M LE MAGAZINE DU MONDE

Parla velocemente, come se il tempo stesse per scadere, e nella sua voce c’è un misto di rabbia, energia e tristezza. Il giorno in cui lo raggiungiamo telefonicamente, all’inizio di novembre, Mosab Abu Toha è a San Francisco, in tournée promozionale Foresta del rumore (Knopf, non tradotta), la sua ultima raccolta di poesie, appena pubblicata in inglese. Pochi giorni dopo si recò in Francia per parlare del precedente, Quello che troverai nascosto nel mio orecchio (Julliard, tradotto dall’inglese da Eve de Dampierre-Noiray).

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Pubblicata nel 2022 negli Stati Uniti, questa raccolta di resoconti poetici ci immerge, con parole che risaltano ancor più delle immagini che ci giungono oggi, nella sua vita quotidiana a Gaza. Questi testi sono stati scritti prima dei massacri di Hamas, del 7 ottobre 2023, e della sanguinosa risposta dell’esercito israeliano sul suo territorio e da solo, ma nella lunga litania di eventi bellici che ne hanno segnato, a prescindere, l’esistenza. La violenza descritta da Mosab Abu Toha è nel suo cuore e nella sua carne sin dalla sua nascita, trentadue anni fa, nel campo profughi di Al-Shati, nel nord della Striscia di Gaza.

« Ovviamente questo viaggio sarà la mia prima volta a Parigi. Sono palestinese! Fino all’età di 27 anni non potevo lasciare il mio Paese”. spiega. Ha richiesto e ottenuto un visto Schengen il mese scorso mentre partecipava a un festival di poesia in Grecia. Alla domanda su come sta, la sua risposta sbotta: “ Meglio dei miei familiari rimasti a Gaza. » Nel novembre 2023, lo scrittore ha intrapreso la via dell’esilio con la moglie e i loro tre figli. Adesso vivono negli Stati Uniti, non lontano dal campus della Syracuse University, nello Stato di New York, dove Mosab Abu Toha si è laureato nel 2023 e dove oggi insegna.

Inglese, è sesamo

Da diversi mesi è sulle pagine di Newyorkese una cronaca irregolare della sua esistenza. Ha scritto anche articoli su New York Times e il Washington Post. Ma le parole poetiche lo abbandonarono. “Non riesco a trovare il tempo, ha dettoe poi tutto il mio lavoro al momento è in inglese. Dal momento che i media occidentali non stanno facendo il loro lavoro [rendu très difficile par la situation matérielle sur place ainsi que par les limitations imposées par Israël pour accéder au terrain]sono diventato giornalista. Leggo le notizie in arabo, le traduco e le pubblico sui social network… È un po’ come se Anna Frank, invece di scrivere il suo diario dal suo nascondiglio ad Amsterdam, avesse postato la sua vita quotidiana su Facebook. I miei connazionali stanno perdendo la vita, ma anche il passato, il presente e il futuro, e se non faccio qualcosa per garantire che le loro storie vengano viste, la gente non saprà cosa sta succedendo. »

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