“Non devi pensare a casa. Immagina che sia una tenda con questi come pilastri. È una tenda calda che proteggerà te e la tua famiglia” : è questa la simpatica formula trovata da Giuseppe Mazzariol per rassicurare Marie-Thérèse Cartigny Ottolenghi, un po’ preoccupata per le spesse colonne che troneggiano al centro del cantiere della sua futura casa.
1974, siamo sulle rive del Lago di Garda, a Bardolino, dove gli Ottolenghi scelsero di far costruire una villa da Carlo Scarpa su consiglio di Mazzariol, eminenza culturale veneziana che fece da intermediario tra l’architetto e il suocero del proprietario Carlo Ottolenghi, committente dell’opera. Ispirandosi alla pianta cilindrica della Jesper House di Frank Lloyd Wright a Palos Verdes, in California, Scarpa iniziò installando nove colonne stratificate di cemento e pietre diverse – principalmente Prun e Trani -, sufficienti a creare una bella scena per immaginare piccoli spettacoli nel giardino, lui dice. Ma i proprietari vogliono una casa, non un teatro.
Dove sono i muri? “Non c’è bisogno di muri, perché in genere la gente finisce per appendervi i quadri e spesso sono brutti”, ribatte l’architetto, mai timido nello scherzare. Dopo un progetto durato cinque anni e mezzo, le pareti e il soffitto finalmente arrivarono, senza che Scarpa potesse vederli finiti essendo scomparso nel 1978, lasciando tuttavia dietro di sé una moltitudine di disegni e indicazioni che guideranno Giuseppe Tommasi e Guido Pietropoli, suoi collaboratori , per gli ultimi ritocchi.
La casa misura infine 240 metri quadrati e il risultato delizierà tutti. Bisogna ammettere che l’impresa è stata notevole, visti i vincoli imposti dal piano urbanistico del paese: non più di un piano e soprattutto non più di 445 metri cubi, nonostante il terreno coltivato a vigneto si estenda su 7.600 metri quadrati.
Fu così che Carlo Scarpa decise di interrare parte della casa nella collina, rendendo il tetto una sorta di prolungamento. Citato da Tommasi in AMC n°50 del dicembre 1979, l’architetto così descrive il suo progetto: “L’edificio è stato concepito come una forma insolita per cui, grazie alle deformazioni della muratura, il volume costruito sfugge alla vista da lontano: le pareti esterne appariranno come diaframmi ricoperti di vegetazione (edera, ampelopsis, ficus repens)… Il tetto è stato appositamente studiato affinché diventi un piccolo angolo di terreno sconnesso, terreno sul quale sarà possibile anche camminare. »
I volumi interagiscono con il giallo, il blu e il rosso delle pareti, sovrastate da un soffitto nero – alternativo all’albicocca inizialmente previsto.
A meno che non ci si avventuri nella “calle”, il solco scavato tra il retro della casa e la collina per garantire l’areazione delle stanze dei bambini e donare loro un’aria veneziana. E Marie-Thérèse Cartigny Ottolenghi conferma: “L’idea era quella di ricreare una piccola Venezia a Bardolino, per i bambini, da qui la presenza di acqua ovunque… Sembra molto semplice, ma in realtà è un sistema di collegamenti estremamente sofisticato. »
Sul lato del giardino, un laghetto riecheggia la vista del lago che si vede in lontananza dal tetto creando un gioco di riflessi che riverberano attraverso le grandi finestre della facciata e inondano di luce i soggiorni, trait d’union i due poli opposti della casa: genitori e figli. Si tratta di fatto di tre mezzi livelli molto aperti dove tutto è arioso; in ogni angolo della casa emerge come per magia un punto di fuga o prospettiva, ingegnosamente calcolato da Scarpa affinché l’occhio possa attraversare lo spazio e incrociare sulla sua traiettoria tutti gli elementi che lo modellano.
Le colonne ovviamente, ma anche gli altri volumi che si incastrano qua e là, dialogano con il giallo, il blu e il rosso delle pareti, sovrastate da un soffitto nero – un’alternativa al color albicocca inizialmente previsto, ma impossibile da riprodurre. Scarpa lo aveva detto, Villa Ottolenghi doveva essere un’”arlecchino” cromatico ed è proprio un’opera d’arte che egli seppe realizzare qui da cima a fondo, siano esse le linee arrotondate del terrazzo disegnate dal gesso a terra o la disposizione dei mattoni sul tetto, un omaggio alle composizioni di Paul Klee. È vero, che senso ha aggiungere tabelle?
L’occhio attraversa lo spazio e incrocia sulla sua traiettoria tutti gli elementi che lo modellano. Le colonne,
ovviamente, ma anche gli altri volumi.