L’editoriale del Dopo: Kaiser salvato

L’editoriale del Dopo: Kaiser salvato
L’editoriale del Dopo: Kaiser salvato
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Non daremmo un po’ troppo importanza ai calciatori? Ultimo esempio: la magnifica trilogia documentaristica Beckenbauer, l’ultimo imperatore su Arte. Risposta: no. La prova qui sotto. L’editoriale di Thibaud Leplat.

Può un calciatore salvare una nazione? Spesso esageriamo, è vero. Fingiamo di credere che un ragazzo che fa triple nel fine settimana possa risolvere i nostri problemi esistenziali. Nonostante l’amore e l’ammirazione che nutriamo per Mbappé e Shevchenko, il calcio non può fare nulla e gli eroi tornano ad essere anonimi sul fronte orientale. All’inizio della guerra in Ucraina, ricordo le foto di questi orgogliosi campioni ucraini che si difendevano dall’invasore russo. Da allora ne sono morti 487. I carri armati non erano silenziosi. No, lo sport non cambia il mondo. Smettiamola di mentire, una volta per tutte.

Altra ipotesi per spiegare la nostra creduloneria: facciamo finta di credere per darci coraggio. Perché in fondo sappiamo benissimo che i calciatori non possono competere con i grandi scienziati, i grandi politici, i grandi scrittori. Un calciatore non ha lavoro. Nessuna nuova idea sul mondo. Qualsiasi affermazione che implichi il contrario è, nella migliore delle ipotesi, ingenuità, nella peggiore, cinismo. Conclusione su cui siamo tutti d’accordo, nessuno si aspettava che Michel Platini facesse l’Europa o Zinedine Zidane prendesse la guida della guerra d’Algeria.

Deschamps, Platini, Leonida

Ho guardato con sospetto il documentario di Arte su Franz Beckenbauer (a proposito, perché i documentari di Arte football sono sempre i migliori?). E, sorpresa, anziché riprendere accademicamente nel dettaglio la carriera del Kaiser, il regista, Torsten Körner, tenta un’interessante allegoria: raccontare la seconda parte del Novecento tedesco a partire dalla figura del suo calciatore più eminente. Dalla contrizione degli anni ’50, passando per la modernizzazione degli anni ’70, poi la svolta europea e la caduta del muro di Berlino nel 1989, la riunificazione coronata dalla vittoria dei Mondiali l’anno successivo: tutto, in questo film, restituisce la figura di Beckenbauer lo status di simbolo.

Pochi estratti di partita, ma Platini ad elogiare l’esterno di piede del maestro bavarese, Deschamps a mettere a nudo la sua naturale gerarchia tra “leader”, “neutrali” e “inseguitori”. Anche artisti, intellettuali per dire come la grazia di Beckenbauer, l’eleganza del suo portamento aristocratico, il suo gusto per l’altrove lo avessero trasformato nell’avanguardia della resurrezione tedesca. La pacifica irruzione delle bandiere tedesche riunite attorno alla Porta di Brandeburgo a Berlino per celebrare il titolo mondiale del 1990 può quasi strappare una lacrima. Un grande popolo europeo era appena rinato pacificamente e aveva fatto di Beckenbauer il suo leader nell’ordine delle passioni. Implacabile.

Strada facendo dovremo quindi rivedere la nostra ipotesi iniziale. Sì, i calciatori sono figure grandiose. Ma non vincono nessuna guerra e tra 1000 anni, quando i Mondiali non esisteranno più, chi si ricorderà ancora di Beckenbauer? Troverà un posto nel pantheon degli atleti dimenticati accanto a Milone di Crotone, Leonida di Rodi o Melagomo di Caria? NO.

Eroe dell’irruzione

L’eroe dello sport non è nemmeno l’eroe di un romanzo. Rastignac, Edmond Dantès, Jean Valjean rappresentano l’ambizione, la vendetta, il coraggio. L’eroe sportivo è solo carne, non dice nulla, non presenta alcuna idea più grande di lui. In un corpo divenuto oggetto di culto, è troppo incarnato (caroin latino, la carne) per offrire qualcosa di diverso da una prestazione egoistica e deperibile. Dove dunque comincia a parlare così forte la carne di certi uomini? In che modo le prestazioni sportive sembrano improvvisamente contribuire ai principali cambiamenti storici? Il fatto è che, irrompendo come eroi, gli atleti cambiano il mondo senza volerlo.

Naturalmente i calciatori non sono personaggi storici. In quanto tali, non meritano alcuna statua sulle rotatorie del centro città. Detto questo, se la loro posterità è solo involontaria (cosa pesa Lineker rispetto a Churchill?) la loro notorietà dice qualcosa sui tempi in cui essa avviene. Se il calcio è uno “specchio dei tempi”, come si strombazza ovunque (prima di chiedere sussidi) non è perché rifletta la società, ma piuttosto perché la costringe a pensare. Il calcio, in fondo, è un linguaggio (come la danza, come la musica, come l’amore). È un insieme di segni che esprimono significato. Il suo lessico è fatto di gesti e intenzioni. La sua impareggiabile potenza metaforica nasce da questa originale semplicità: tutti parlano di calcio senza averlo mai giocato.

Con noi non esiste alcuna teoria, basta vedere per credere. Credere, vedendo Beckenbauer controllare la palla nella sua area, che essere tedesco non sia un altro modo di rinunciare all’eleganza. Credere di avere tutto il diritto di disobbedire agli ordini ingiusti (passando con l’esterno del piede anziché con l’interno) se il fine è lodevole (accelerare il gioco). Credere che nello sport si abbia sempre il diritto di ricominciare.

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