No, è dal 1997 che scricchiolii le notizie sulle colonne di Le Télégramme. Dieci anni fa hai reso omaggio, attraverso il disegno, alle vittime dell’attentato a Charlie Hebdo. Raccontaci, per cominciare, come hai vissuto questo evento?
Era un mercoledì. Stavo preparando da mangiare, lo ricordo bene. Stavo ascoltando la radio quando ho saputo dell’attacco a Charlie Hebdo. Ho cominciato a sentire dei nomi, quello di Cabu per esempio. Ho acceso la televisione e ho visto le immagini. È stato in quel momento che ho realizzato la terribile tragedia… Un’ora dopo, la redazione di Le Télégramme mi ha chiesto un disegno. Ho pensato a un disegno che avevo fatto su ciò che accadeva in Algeria negli anni ’90, quando il Gruppo Islamico armato assassinava artisti, giornalisti, scrittori. All’epoca disegnavo una penna crivellata di proiettili. Ho ripreso in mano questa penna ma il suo inchiostro rosso si stava diffondendo per le strade di Parigi. Questo disegno è stato messo sul sito ma ho continuato a disegnare. In quel momento ho sentito il bisogno di esprimermi, di dimostrare la mia solidarietà. Disegnavo pensando a questi eroi della libertà di espressione.
Ti sei sentito attaccato quel giorno nella tua professione, nella tua arte?
Sì, naturalmente. È la prima volta che una redazione viene decimata… All’epoca Charlie Hebdo avrebbe dovuto avere una tiratura di 30.000 copie. Dopo l’attacco ne ha venduti 8 milioni. È interessante e quasi malsano… 8 milioni di persone sono corse in edicola per acquistare questo oggetto un po’ feticcio ma poi hanno perso interesse per il giornale. In ogni caso, molte persone hanno scoperto la professione di fumettista giornalistico il 7 gennaio 2015.
Questo evento ha cambiato il tuo modo di lavorare?
Abbiamo tutti una qualche forma di autocensura. Siamo il frutto di un’educazione, di una morale, di una cultura, di una religione… Ma penso infatti che dopo l’attentato ci sia stata una forma di moderazione su molti giornali, per non offendere i lettori. Oggi ci troviamo in una situazione più tiepida.
Per Laurent Bihl, specialista in satira all’Università di Parigi 1er Panthéon Sorbonne, la lotta dei fumettisti è cambiata. Secondo lui bisogna lottare contro l’indifferenza ambientale e non più contro la censura legislativa. Condividi questa opinione?
Sì, assolutamente. Indifferenza mi sembra un termine molto giusto. La vignetta stampa non è consensuale. È lì per far reagire, pensare, aprire il dibattito. È per natura irriverente. Dal 7 gennaio 2015 ho parlato in un centinaio di scuole per parlare agli studenti della libertà di espressione. Quando vado in queste scuole mi sento un cittadino, un cittadino designer. Esistono leggi che regolano la nostra libertà di espressione. Non spetta certo a due selvaggi armati di kalashnikov stabilire la propria legge e negare lo stato di diritto in cui viviamo e in cui disegniamo.
Nono, hai qualche aspettativa per questo “compleanno”?
È un compleanno terribile ma è importante ricordarlo. I fumettisti di Charlie Hebdo erano pacifisti e continuavano a lottare per la libertà di espressione. Per me sono combattenti della resistenza del pensiero dogmatico. Abbiamo perso amici ma anche persone che rappresentavano una lotta.