Negli alti e bassi di una stagione sulle montagne russe, iniziano a sorgere preoccupazioni sul capitano dei Canadiens Nick Suzuki.
Non è il suo talento o il suo impegno che mettiamo in discussione, ma piuttosto la sua capacità di radunare una squadra che fatica a mantenere la propria coesione.
Mentre la squadra si prepara ad affrontare gli Islanders, le parole di Suzuki, sebbene piene di leadership, non sembrano più risuonare con la stessa forza nello spogliatoio.
« Dobbiamo imparare dai nostri errori e restare concentrati sui 60 minuti”ha insistito Suzuki prima della partita.
Un’affermazione giusta, ma che si è trasformata in un ritornello faticoso, ripetuto ad ogni battuta d’arresto.
Il capitano vuole crederci, ma i risultati sul ghiaccio raccontano tutta un’altra storia.
Tra clamorosi errori difensivi, cali di velocità nel terzo periodo e incapacità di eseguire giocate semplici sul power play, diventa evidente che questo discorso, per quanto sincero, non trova più l’eco sperata tra i suoi compagni di squadra.
Questo problema è tanto più allarmante perché Suzuki, a soli 25 anni, porta già con sé il peso di una responsabilità immensa.
Essere capitano in una città come Montreal, dove la pressione di tifosi e media raggiunge i massimi livelli, non è un compito facile.
Eppure la sua calma e maturità sembravano, l’anno scorso, qualità perfettamente adatte al ruolo.
Ma in questa stagione, mentre i Canadien sembrano impantanati nell’incoerenza, è la sua voce che inizia ad essere messa in discussione.
“Dobbiamo giocare da squadra, e questo inizia da me”ha ammesso.
Un’affermazione umile e onesta, ma che solleva una questione delicata: cosa succede se il capitano stesso non riesce più a galvanizzare il suo spogliatoio?
I giocatori lo ascoltano ancora?
La Suzuki, nonostante la sua buona fede, sembra incapace di spezzare questo circolo vizioso di errori e scarse prestazioni.
Il ritorno di Patrik Laine dovrebbe rappresentare una boccata d’aria fresca per la squadra, ma anche questa boccata d’aria fresca non basterà se il messaggio del capitano continuerà a svanire.
In uno spogliatoio in cui le persone faticano a stare insieme, la comunicazione diventa cruciale.
Ma Suzuki, nonostante i suoi sforzi, dà sempre più l’impressione di predicare nel deserto.
I tifosi, dal canto loro, cominciano a chiedersi se Suzuki abbia le spalle adatte per questo compito titanico.
Non per mancanza di talento – la sua intelligenza nell’hockey e la sua etica del lavoro sono indiscutibili – ma perché sembra, per la prima volta, sopraffatto dalla sfida.
I giovani giocatori, come Juraj Slafkovsky o Kirby Dach, hanno bisogno di un leader che non solo parli, ma le cui parole ispirino.
E se così non fosse, prima o poi bisognerà porsi la domanda: il messaggio di Nick Suzuki è ancora udibile in questo spogliatoio alla ricerca di identità?
Mentre il Bell Center si prepara ad accogliere gli isolani, Suzuki gioca più grande che mai.
Non si tratta solo di vincere una partita, ma di riconquistare l’ascolto dei tuoi compagni di squadra.
Perché in una città come Montreal, dove l’hockey è una religione, un capitano la cui voce non comporta più il rischio di ritrovarsi in una poltrona sempre più espulsa.
La miseria…