Possono bastare le parole per descrivere la realtà della Striscia di Gaza? Dopo 15 mesi di guerra e mentre si discute di un cessate il fuoco, mercoledì 15 gennaio si conclude “stadio finale”, secondo il Qatar, che fa da mediatore, l’enclave palestinese è oggi praticamente annientata. Lanciata in risposta agli attacchi terroristici di Hamas, l’offensiva dell’esercito israeliano si è evoluta, nel corso dei mesi, in un’operazione metodica e brutale di distruzione massiccia del territorio, giustificata dalla volontà di sradicare l’organizzazione islamista.
Ricordiamo che l’accesso dei giornalisti all’enclave palestinese rimane impossibile e che la situazione si basa ancora esclusivamente sulle testimonianze dei residenti, degli operatori umanitari e sul lavoro dei ricercatori. Tutti descrivono un inferno, e un paesaggio di rovine e desolazione, che rende quasi incongruo il riferimento a ciò che esisteva prima del 7 ottobre 2023. La città di Gaza, che contava quasi un milione di abitanti, è così quasi interamente rasa al suolo e studi effettuati utilizzando immagini satellitari stimano che oltre il 75% degli edifici sia stato completamente cancellato dalla mappa.
Più in generale, l’esercito israeliano sembra aver attraversato il territorio con corridoi e basi militari, che ora separano questo pezzo di terra lungo 40 chilometri in tre o quattro zone ermetiche. È stata addirittura costruita una strada da ovest a est, il “corridoio Netzarim”, per tagliare in due la Striscia di Gaza e isolare il terzo settentrionale dell’enclave, obiettivo prioritario delle operazioni militari degli ultimi mesi. La stragrande maggioranza della popolazione è ammassata negli ultimi campi profughi, nella parte meridionale, lungo il mare.
In queste installazioni improvvisate, non risparmiate dalle bombe, le condizioni di vita appaiono assolutamente disumane. Manca l’elettricità, così come il carburante, e soprattutto non c’è né acqua né cibo, a parte quello fornito dai rari convogli umanitari autorizzati a circolare. I camion sono diventati bersaglio di saccheggi da parte di bande e milizie emerse a causa della mancanza di polizia o di servizi pubblici.
Il rapporto di un istituto di riferimento stimava che alla fine del 2024 in alcune zone fosse stata superata la soglia della carestia, cosa che fino ad ora non era mai accaduta. E per quanto riguarda il bilancio umano, il Ministero della Salute di Hamas, unica fonte disponibile, ha registrato più di 46.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, ma questo bilancio potrebbe essere più alto, secondo un recente studio pubblicato su La Lancetta.
Di fronte a questo presente drammatico, è difficile immaginare un domani in un territorio diventato invivibile. Anche se la guerra finisse, tutte le infrastrutture fondamentali di una società sarebbero scomparse: niente più ospedali, niente più scuole, niente più amministrazioni o centri commerciali, insomma niente che permettesse agli abitanti di vivere con dignità.
Dietro il possibile accordo di cessate il fuoco bisognerà tenere conto di alcuni punti importanti per delineare il futuro della regione. L’apertura o meno della frontiera con l’Egitto, dove migliaia di profughi potrebbero essere tentati di fuggire. L’insediamento o meno di coloni israeliani nell’enclave, sostenuta dai movimenti più estremisti della coalizione al potere in Israele dallo smantellamento delle ultime colonie nel 2005. E poi la riorganizzazione di Hamas, decimato dalle operazioni israeliane, ma i cui nuovi leader potranno contare sul carburante offerto da questa guerra mortale per reclutare nuovi combattenti. “Stimiamo che Hamas abbia reclutato tanti nuovi militanti quanti ne ha persi dall’inizio della guerra“, ha affermato profeticamente Anthony Blinken, che si prepara a lasciare il suo incarico di Segretario di Stato americano. Come ad avvertire che il ciclo di violenza è senza dubbio ben lungi dal concludersi con queste trattative.