Ci sono alcuni artisti così visionari, così audaci nella loro originalità, il cui lavoro lancia un incantesimo così primordiale e duraturo che diventa letteralmente difficile immaginare il mondo senza di loro. David Lynch, morto questa settimana all’età di 78 anni, era uno di quegli artisti. Solo dire quel nome, David Lynch (così ironico nella sua semplicità), significa evocare non semplicemente un elenco di film immortali ma un cosmo più elevato dell’immaginazione: un parco a tema surrealista oscuramente paralizzante dove i sogni potevano diventare reali e la realtà sembrava un sogno.
Lynch, nel suo modo impavido, ha reinventato il cinema, lasciando che il rapimento avanguardista nostrano del suo cervello fiorisse in un’estetica che capovolgeva i cliché di Hollywood. Il mio primo incontro con un film di Lynch avvenne nel 1977, quando ero al college e una delle nostre società cinematografiche del campus ebbe l’ispirazione di mettere un’immagine gigante del personaggio del titolo di “Eraserhead” sullo sfondo del suo programma. Per tutto il semestre, quell’immagine rimase appesa al mio muro; questo è tutto ciò che sapevamo del film. Alla fine arrivò la notte in cui sarebbe stato proiettato “Eraserhead”. L’auditorium era gremito e dire che il film fosse all’altezza del poster sarebbe un eufemismo. Già solo il suono, una massa di sibili e ruggiti, era ipnotizzante. Le immagini – di Henry e i suoi capelli con la gomma da cancellare, del bambino mostruoso, della Signora nel radiatore – provenivano da uno scandaloso incubo basato sulla logica del pretzel che in qualche modo divenne tuo incubo.
Eppure… era avvincente. Nel suo modo in cui i muri della sanità mentale si chiudevano su di te, raccontava una storia che ti faceva aggrapparti a ogni svolta allucinatoria. “Eraserhead”, a New York, è diventato un fenomeno di mezzanotte, ma se lo paragoni a tutti gli altri leggendari film di mezzanotte, sembrano tutti usciti da quell’epoca. Mentre Lynch ha messo in scena “Eraserhead” con una bravura senza tempo, tanto che se lo guardi adesso non sembra un film inquietante e datato degli anni ’70. È eterno come “Psycho” o una tela di Dalí o Bosch.
Cosa fai per il bis di “Eraserhead”, il film da sogno più autentico mai realizzato? Lynch ha diretto “The Elephant Man” (1980), un dramma classico di body horror elegantemente contenuto e tragica umanità; era un film di Hollywood, nominato agli Oscar, ed era anche suo in tutto e per tutto. Poi superò se stesso, e ogni altro regista dell’epoca, con il genio del film noir impazzito di “Blue Velvet” (1986). Poi è arrivata la temuta soap opera di “Twin Peaks” (iniziata nel 1990). La sincera salubrità americana sottosopra di “The Straight Story” (1999). L’incubo hollywoodiano “Vertigo” a base di acido di “Mulholland Drive” (2001). E poi i dipinti, i video, i cartoni animati, la meditazione…
David Lynch era un radicale, i suoi film riempivano lo schermo come splendidi dipinti inquietanti e commoventi. Eppure era anche un narratore nato che voleva coinvolgerti nel momento e farti dimenticare te stesso con il tipo di immersione che i film avevano esercitato durante l’era dello studio-system. Quando Lynch è stato scelto dalla società di produzione di Mel Brooks per dirigere “The Elephant Man”, non è stata una sorpresa vedere che immaginava John Merrick con un orrore clinico e sbalordito che trasformava la deturpazione in poesia. Ciò che sorprende è che si sia dimostrato un abile narratore. Sapeva che raccontare storie e lanciare incantesimi erano davvero la stessa cosa.
Sebbene “Dune”, nel 1984, sia stata una debacle (commercialmente e artisticamente), direi che Lynch ha fatto la scelta giusta nel dirigerlo. Lo spettacolo di fantascienza era diventato la forma dell’epoca; aveva senso per lui provarci. E si potrebbe sostenere che abbia sfruttato il fallimento del film in modo ispirato. Dopo aver accettato di realizzare un blockbuster e di adattare il materiale di qualcun altro, è andato avanti con un nuovo tipo di purezza del “mai più”.
“Blue Velvet”, il film che continuo a considerare il più grande capolavoro di Lynch, ha seguito “Dune” emergendo direttamente dalle profondità inquietanti della sua immaginazione. È quasi impossibile descrivere quanto fosse inquieto il pubblico nel 1986 davanti all’immagine di Frank Booth, lo psicopatico che si sballa con la droga, la rabbia e il feticismo. Eppure il film era un thriller, un noir romantico che, con una potenza degna di un Hitchcock postmoderno, trasformava il voyeurismo dell’eroe in quello del pubblico.
Oltre ad essere il più grande film degli anni ’80, direi che “Velluto blu” è stato anche il film più importante di quel decennio, perché ha lanciato in orbita la rivoluzione del cinema indipendente. Sì, presumibilmente tutto ciò accadde tre anni dopo, con “sesso, bugie e videocassette” e Harvey Weinstein e così via. Ma è stato davvero “Blue Velvet” (con un piccolo aiuto da “Blood Simple”) a reinventare il film indipendente come una versione fratturata e lasciata a pezzi della vecchia Hollywood. E si potrebbe fare un’affermazione simile per “Twin Peaks”, in cui Lynch ha osato portare una visione di “Velluto Blu” sul piccolo schermo, dando di fatto il via alla nuova era d’oro della televisione. Ti ha mostrato cosa si poteva fare.
Lynch, a quel punto, era diventato una celebrità, la sua immagine brillava nella seconda metà degli anni ’80 grazie alla sua relazione romantica con Isabella Rossellini, l’intrepida costar di “Blue Velvet”. E una delle principali ispirazioni di Lynch, a partire da quel periodo, fu l’istinto, o forse la giocosa perversità, di trattare la propria vita come un’opera d’arte.
Non è mai stato il tipo che spiegava troppo i suoi film, ma ha creato un mito su se stesso che spiegava moltissimo: il ragazzo tutto americano nato a Missoula, Mont., nel 1946, cresciuto negli anni ’50 e trovato quel leggendario conformista era allo stesso tempo confortante (la superficie) e terrificante (ciò che sta sotto); che ha frequentato la scuola d’arte a Filadelfia e ha vissuto la città come un inferno talmente bombardato da trasformarla nel piano terra della sua immaginazione; che ha impiegato cinque anni per creare “Eraserhead”, girando il suo magico paesaggio infernale in bianco e nero sui palcoscenici dell’AFI a Los Angeles e senza mai rivelare come ha creato l’immagine malata del bambino mostruoso (che prefigurava la creatura in “Alien”); che parlava di andare ogni singolo giorno al Bob’s Big Boy a Los Angeles, dove beveva caffè e frappè, perché era così che si sentiva abbastanza sicuro da lasciare libera la mente; che si vestiva come un dandy del centro con le sue camicie abbottonate fino al pomo d’Adamo e una ciocca di capelli ondulati, sottolineando il suo discorso con aforismi geniali che lo facevano sembrare un Jimmy Stewart sballato; che divenne un devoto della meditazione trascendentale, perché era un altro dei suoi spazi sicuri neo-anni ’50; e non intendeva dire “chi non ha mai girato neanche un metro di pellicola”.
L’establishment della critica cinematografica è arrivato a considerare “Mulholland Drive”, uscito nel 2001, come il più grande lavoro di Lynch. E anche se penso che il film sia una meraviglia, non ne ho mai condiviso la visione definitiva. Penso che i critici siano troppo innamorati del modo in cui “Mulholland Drive” si decostruisce. Il film gioca con temi che, per me, avevano un’audacia più sconvolgente in “Blue Velvet”. E rifletteva qualcosa nel lavoro di Lynch che divenne più pronunciato con gli anni: la sua tendenza a riciclare temi, stati d’animo e motivi. Ciò è emerso per la prima volta in “Cuore selvaggio”, un film a cui non sono particolarmente affezionato (trovo che la recitazione strenuamente stilizzata di Nicolas Cage lo indebolisca). E lo potevi sentire anche in “Lost Highway” e in alcune parti del frammentario video relitto di “Inland Empire”. Allo stesso tempo, Lynch continuava a spingersi oltre. Il suo revival di “Twin Peaks” del 2017 è stata la televisione nella sua forma più follemente audace.
In quella che è senza dubbio la scena per eccellenza della carriera di Lynch, in “Blue Velvet”, Dean Stockwell, con l’aspetto di una sorta di folle clown gangster, tiene un’opera industriale illuminata sul suo viso imbellettato come un microfono e sincronizza le labbra con “In Sogni.” Il testo recita: “Nei sogni, cammino con te/Nei sogni, parlo con te/Nei sogni sei mio, tutto il tempo/Siamo insieme nei sogni”. Queste parole, come rivelerà il film, incarnano il punto di vista di Frank Booth, lo psicopatico sadomasochista e tossicodipendente, interpretato con spaventosa brillantezza da Dennis Hopper, che ha piantato il seme della sua stessa oscurità in Jeffrey (Kyle MacLachlan), l’attore del film. un eroe sano in superficie. Eppure quei testi potrebbero anche parlare per David Lynch. I suoi film sono sogni che ci parlano, che camminano con noi, che ci invadono in modo tremante e memorabile. Adesso che non c’è più voglio dirgli: Sogna in pace.
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