“Sono indiana, la sua famiglia non mi voleva”: la vita sentimentale di Aisha al centro del processo della madre

“Sono indiana, la sua famiglia non mi voleva”: la vita sentimentale di Aisha al centro del processo della madre
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Una voce piccolissima, scandita da lunghi silenzi, si alza come meglio può nell’aula del tribunale di Cergy-Pontoise. “Mi rende triste parlare di tutto ciò”, sussurra questo martedì 30 aprile al bar Hayat (i nomi sono stati cambiati), 9 anni all’epoca dei fatti, 13 oggi e testimone diretto. Alla sua destra, nella teca di vetro, sua madre, Bibi M. Questa donna pakistana di 50 anni è accusata di aver tentato, il 5 giugno 2020, nell’appartamento di Garges-lès-Gonesse dove vive con la sua famiglia ha strangolato la figlia maggiore Aisha, che quel giorno aveva 21 anni, con le mani e poi con una sciarpa, e quasi ci è riuscito. La vittima, pare, deve la sua vita all’intervento di alcune persone e, nonostante gli anni e le cure, presenta ancora dei postumi.

“La donna che ho visto in quel momento non era la mia solita vicina, non quella con cui a volte cucinavo, carina. Lì era aggressiva, con lo sguardo rivolto altrove, un po’ come uno zombie”, racconta Latifa con le lacrime agli occhi. Allertata da Hayat che non riusciva a fermare le azioni di sua madre, questa vicina di casa è stata la prima ad entrare in casa e ad imbattersi nella scena ancora in corso. Spaventata, è tornata a casa con il bambino per chiamare la polizia, poi i vigili del fuoco. “Venite presto, una madre sta uccidendo sua figlia”, implora, secondo le trascrizioni. Come siamo arrivati ​​qui ? È ciò che cercano di far luce i diversi testimoni presenti in questa seconda giornata di processo.

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