perché è l’anti-Avatar, che non capisce niente di cinema digitale

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Mufasa ha lasciato Antoine più che perplesso dal suo uso dell’animazione 3D fotorealistica. Meritava un editoriale.

Anche se può sembrare difficile da credere, Mufasa: Il Leone Roi è stato nei miei pensieri da quando l’ho visto al cinema. Non che il film mi abbia toccato o affascinato, anzi è stato proprio il contrario: mi ha sorpreso la totale assenza di emozioni, anche per quanto riguarda trigger nostalgia attesa da un film che ha scosso la mia infanzia.

Anche per questo ho voluto scrivere questo editoriale in prima persona. Nonostante la distanza critica, mi considero un ottimo pubblico e penso che sia abbastanza facile per un film coinvolgermi nella sua storia. Ad essere sincero, avevo poche speranze di essere conquistato Mufasa dopo la critica di Déborah, che mi è sembrata la logica continuazione della mia opinione in merito Il Re Leone del 2019.

Delusione totale

Tuttavia, il giorno prima di tornare dalla mia famiglia per le vacanze di Natale, ho voluto vedere subito il prequel sul bellissimo schermo gigante del Grand Rex. Senza dubbio una parte di me sperava di catturare una piccola percentuale della magia infantile prima dell’inizio delle vacanze, mentre un’altra parte era morbosamente curiosa di vedere Barry Jenkins, il regista di Chiaro di luna et Se Beale Street potesse parlareandare fuori strada davanti a un blockbuster del genere, come si rallenta davanti a un incidente stradale.

Solo che al momento Mufasa non è riuscito nemmeno a deludermi o infastidirmi tanto che sono uscito furioso dalla stanza. Il mio sentimento si riduceva ad una educata noia, che ho subito ricondotto ai codici altisonanti del nostalgico prequel (come ha fatto Scar a diventare Scar? Come ha fatto Lions Rock a diventare Lions Rock?) e all’atroce gestione ritmica di un secondo atto che trascina le gambe – ironico per gli animali nel bel mezzo di un viaggio.

Mufasa: Il Re Leone: foto
Cringe Valley

Ma la cosa peggiore è questa Il film non è mai riuscito a stupirmi per la vetrina tecnologica che rappresenta. Anche se sono lungi dall’essere un esperto nel campo dei VFX, chi comincia a conoscermi su Ecran Large sa che l’argomento mi affascina, e riesce a farmi perdonare in certi casi anche le divagazioni narrative di un film.

Nonostante tutto l’odio che provo per Il Re Leone del 2019 e il suo approccio idiota copia-incolla, rilevo anche in rari momenti la sete di sperimentazione tecnica di Jon Favreau, unica inclinazione di un progetto impossibile da rendere interessante. Al di là del suo approccio innovativo alla fotocamera virtuale, la qualità delle pellicce, dell’acqua e degli effetti di luce è riuscita ad affascinarmi in alcuni scatti, soprattutto pensando al riferimento al 1994.

Fondamentalmente mi aspettavo almeno la stessa cosa da Mufasa. Anche se ciò significava essere fuori fase rispetto alla sua storia, speravo che la sua maestria visiva mi avrebbe lasciato senza parole per l’ammirazione verso le sue centinaia di piccole mani di animatori preoccupati. Con mia sorpresa, Sono rimasto senza parole solo una voltaè il momento di uno scatto di cui non oso immaginare la complessità, in cui Rafiki inizia a comportarsi come un angelo in una delle nevi CGI più belle che abbia mai visto.

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L’unico piano che mi ha colpito

Leoni contro Na’vis

Se mi lancio in questo editoriale, non è tanto per questa mancanza di effetto “wow”, che ha necessariamente perso appeal rispetto al primo film. C’è da mettere in discussione la strana sensazione di disagio che ho provato di fronte Mufasa. Regolarmente sentivo il bisogno di allontanarmi dallo schermo per qualche secondo, come se rifiutassi le immagini e il loro fotorealismo. Più il lungometraggio mi urlava in faccia che voleva essere il più vicino possibile alla realtà, più il suo approccio mi sembrava falso.

Naturalmente, potrei sottolineare l’ovvio: l’inestricabile paradosso di rappresentare animali digitali “realistici” forzandone al contempo l’antropomorfizzazione. È chiaro che parte del problema sta in questo equilibrio impossibile, soprattutto quando la lettura del film è poco aiutata dal montaggio che accumula controcampi su creature poco espressive e quasi fisicamente identiche.

Siamo sorelle gemelle

Tuttavia, il mio “disgusto” (in mancanza di un termine migliore) ha superato di gran lunga questo limite valle misteriosasenza che io possa metterci il dito sopra. Fortunatamente nella mia famiglia il rientro a casa nel periodo natalizio porta spesso all’accensione della TV e, anche nel bel mezzo di una sessione di gioco da tavolo, ho chiesto di lasciare in sottofondo la trasmissione su TF1. DiAvatar 2: La Via dell’Acqua.

Anche se cominciavo a conoscere il film a memoria (devo essere almeno alla decima visione), non c’è voluto molto per essere trasportato di nuovo a Pandora, e a differenza MufasaNon metto mai in dubbio la verità del suo mondo e della sua immersione. E è stato allora che ho capito cosa c’era che non andava nel prequel Disney.

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Stai attento, stiamo andando lontano

CG Ahi

AncoraggioAvatarè soprattutto quella della sua macchina fotografica. Nonostante la sua abilità tecnologica, James Cameron nel corso della sua carriera ha assicurato che la sua messa in scena fosse logica in relazione allo spazio che filma, virtuale o meno. In caso diAvatarla sua divisione è governata come se su Pandora venissero utilizzate le tradizionali macchine cinematografiche. Vediamo telecamere a mano, alcuni zoom vivaci e persino le spettacolari carrellate potrebbero provenire da elicotteri o obiettivi fissati agli ikran dei personaggi.

Insomma, lo spazio del pianeta immaginario influenza direttamente l’immagine diAvatar e i suoi movimenti di macchina, che si tratti degli effetti di luce, dell’acqua e più in generale degli elementi incrociati. Senza bisogno di prestarvi attenzione, questo senso del dettaglio permette a Cameron di evidenziare le trame del suo universo e la sorprendente resa dell’animazione.

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Il mondo di Dory Sinistra

Ciò non significa, però, che sia l’unica alternativa per avvicinarsi al cinema digitale. Steven Spielberg (Tintin, Pronto Giocatore Uno), Robert Zemeckis (Il Pole Express, Beowulf, Il canto di Natale di Scrooge) o bis Alfonso Cuaron (Gravità) colpirono per i loro piani sequenza sproporzionati, emancipati dai limiti del tangibile. La telecamera può accompagnare il caos totalmente organizzato in una coreografia folle, attraversare la materia o vederla passare da un elemento all’altro.

Al di là del puro brivido delle montagne russe, c’è in questo approccio una messa in discussione ontologica del digitale. Quando Spielberg mostrò una nave allucinata che trasformava una duna in un’onda Tintinil pixel è stato riportato alla sua natura di unità base, un microscopico mattoncino Lego capace di creare ogni cosa, di cambiare forma.

Possiamo anche estendere questo confronto con Il Re Leone del 2019, che in pratica era proprio l’equivalente di quei video Lego in cui ci si divertiva a ricreare le scene dei film, ma con un 3D fotorealistico e un budget di oltre 200 milioni di dollari. Da parte sua, Mufasabloccato tra i successi del suo predecessore e la sua storia “originale”, non sa più su quale piede ballare, e alla fine rimane bloccato in un bastardo nel mezzo.

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Capolavoro

Senza mai indulgere in grandi voli piroettanti, anche la sua macchina fotografica virtuale non ha il rigore realistico di quella di Cameron. Non appena gli animali iniziano a correre, la lente sembra fluttuare nell’ariain un movimento troppo perfetto e troppo programmato per incarnare il suo mondo virtuale. Questo galleggiamento è permanente, incapace di attaccarsi al suolo in queste carrellate fluide, dove i corpi dei leoni servono in certi casi anche a “bloccare” la telecamera sui loro movimenti. In molte occasioni, ho percepito l’immagine cinematografica allo stesso modo di una cinepresa di un videogioco in modalità foto, che naviga nello spazio pur essendo decorrelata da esso.

Questo è forse il miglior parallelo da fare con la messa in scena di Mufasa. La modalità foto di un videogioco non è solo una pausa, ma è anche il momento in cui cambiamo punto di vista, in cui lasciamo il nostro avatar, come un’esperienza fuori dal corpo. Ed è proprio questo divario che crea una distanza dal risultato finale.

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Il leone è morto così, davvero

Depressione dei pixel

Dall’uscita del primo Avatar nel 2009, alcuni media hanno raccolto testimonianze di spettatori devastati dalla tristezza mentre lasciavano la sala. Il fenomeno fu subito soprannominato “sindrome depressiva post-Avatar”riflettendo in parte del pubblico il desiderio di non abbandonare mai l’incantevole universo del film, e la consapevolezza di un divario tra il mondo della finzione e il difficile ritorno alla nostra realtà.

Più che una semplice fascinazione per un’immaginazione che non possiamo raggiungere, la sindrome conferma il vero approccio di James Cameron. Per coloro che si sono presi gioco dell’ingenuità ecologica del regista, Avatar era soprattutto un passo avanti, riflettendo già questo sentimento di ecoansia che ora sentiamo ovunque. Possiamo anche dirloAvatara 2 va ancora oltre in questa materia, condannando definitivamente la Terra attraverso il consumismo umano. La convivenza su Pandora è impossibile e la guerra, così rifiutata dalla filosofia Na’vi, diventa una necessità per proteggere questo angolo di paradiso.

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Una guerra inevitabile?

Ciò che Cameron sta dicendo implicitamente è questo l’utopia può esistere solo attraverso la tecnologia più avanzata e precisa. Questa è la tragedia del fotorealismo della saga. La bellezza e la tangibilità della sua biosfera e delle sue strutture sono solo lo specchio deformante del nostro stesso pianeta, quello che stiamo distruggendo. Attraverso la perfetta fabbricazione di un altrove fantasticato, i film ci riconnettono alle nostre responsabilità, alla fine programmata e indifferente del nostro mondo “reale”, rendendo il cinema digitale non tanto una via di fuga quanto un confine poroso – sebbene invalicabile – con il reale.

Anche qui, Mufasa risponde con l’antitesi nel peggiore dei modi. Il suo desiderio di realismo documentaristico fa sì che i vari biomi attraversati dai personaggi siano gli stessi tetri set di CGI, fotografati con una profonda mancanza di contrasto. Ma soprattutto, costringe il nostro mondo all’immaginazione fittizia di Re Leoneeppure privo di esseri umani.

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Indovinello di attenzione: qual è Mufasa?

Rispetto a quanto ho detto prima, Barry Jenkins e i suoi team non si sono mai posti la questione del valore del pixel. Cosa rappresento con i miei mattoncini Lego virtuali? Quale immaginazione tradurrò con queste impressionanti tecnologie? Dove Avatar fa della sua perfezione digitale la proiezione di un’altra perfezione, essa stessa realissima e ancora conservabile, Mufasa trasforma questo cinema di tutte le possibilità in un altro surreale parco Disneylandriprodurre con precisione ambientazioni e animali reali per disconnetterli meglio dalla loro realtà.

Forza il suo simulacro facendoci dimenticare le sue due fonti: il film originale e il mondo reale, con un’imbarazzante incoscienza. Paradossalmente, l’impronta dell’uomo su questo mondo che ne è privato finisce per farsi sentire nel più piccolo pixel. Questo è il rifiuto che ho provato di fronte Mufasache potrei paragonare a questo momento in cui Neo non vede più la facciata di Matrix, ma il codice che la compone.

In queste pure terre digitali, nelle quali gli esseri umani in definitiva non possono penetrare, anche se ne sono i creatori, l’esplicito anticolonialismoAvatar sfuma in Il Re Leone e il suo prequel. Questa immensità inondata di luce non è più il regno degli animali. È ancora quella degli uomini, che creano palliativi appariscenti e senza senso, semplice copia e incolla di un’immensità sempre più immersa nell’oscurità.

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