Perché guardare il documentario di Mati Diop?

Perché guardare il documentario di Mati Diop?
Perché
      guardare
      il
      documentario
      di
      Mati
      Diop?
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Dahomey è il secondo lungometraggio della regista franco-senegalese 42enne Mati Diop. Il suo primo film, atlanticovincitore del Grand Prix del Festival di Cannes nel 2019, raccontava la migrazione in piroga di giovani lavoratrici senegalesi verso l'Europa, vista attraverso gli occhi delle donne rimaste nel Paese. Questa volta, il regista ha filmato un viaggio inverso: il ritorno in Benin di 26 tesori reali saccheggiati durante la conquista coloniale, restituiti ufficialmente dalla Francia nel 2021. Un documentario incoronato lo scorso marzo dal massimo riconoscimento alla Berlinale.

Una forma ibrida innovativa

Girato durante la preparazione delle opere al Musée du Quai-Branly e poi durante la loro esposizione a Cotonou, il film assume una dimensione fantastica quando la statua dell'uomo-uccello del re Ghézo inizia a parlare con una voce proveniente dall'oltretomba. Questo “revenant” è un cenno al film Anche le statue muoiono di Alain Resnais e Chris Marker che, nel 1953, denunciarono il confinamento del patrimonio africano al Musée de l'Homme di Parigi.

Scritte dallo scrittore di origine haitiana Makenzy Orcel, queste parole in lingua Fongbé conferiscono alla statua anche la sua aura spirituale. Che contrasto tra il mondo sterilizzato e robotico del museo parigino e la festa, i costumi dai colori vivaci e gli scettri che accolgono le opere a Cotonou! La telecamera cattura persino un uomo che sussurra loro misteriose parole di benvenuto.

Un punto di vista raramente mostrato

Mati Diop dice che vuole fare film per “ripristinare le immagini mancanti”. Ci riesce qui catturando le reazioni dei giovani studenti dell'Università di Abomey-Calavi a queste restituzioni, di cui si sente poco parlare in Europa. Alcuni si interrogano sul posto da dare a questo patrimonio. Altri criticano la strumentalizzazione politica dell'operazione, come la piccola quantità di opere restituite rispetto alle migliaia di altre saccheggiate dalle truppe francesi. “Restiamo ancora all’interno dello schema tracciato dal colono”, si lamenta uno di loro.

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