Che Fabrice Luchini sia un fenomeno è evidente. Che sia soprattutto un attore eccezionale è l’altra certezza davanti alla quale si inchina il pubblico del Théâtre de l’Atelier, a Parigi, dove va in scena l’ultimo spettacolo dell’artista (che lo replicherà, dal 19 gennaio 2025, al Théâtre de la Porte-Saint-Martin, a Parigi).
Leggi l’intervista a Fabrice Luchini (nel 2021): Articolo riservato ai nostri abbonati “Non sono bravo nella felicità, sono bravo nel lavoro”
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Quasi due ore di un’ondata di sensazioni, emozioni e parole in cui si parla solo di Victor Hugo. Hugo lodato da Baudelaire e salutato da Péguy. Hugo, per il quale l’attore si guarda bene dal costruire una statua di marmo mortuaria (non è nel suo stile), ma che fa risaltare, oggi, vibrante, sensuale, umana. Più necessario che mai alle nostre vite. Se dovessimo ricordare un solo lampo di questa ardente rappresentazione, sarebbe l’imperativa necessità delle nozze tra poesia e umanità. Un cliché? Sì, ma qui chi è spogliato: senza poesia l’umanità è povera di parole, senza umanità la poesia non ha molto da dire.
Come riesce l’attore a raggiungere questa impresa? Nelle prime pagine di Scarpa in raso (1929), appare un annunciatore che avverte tutti: “Ascolta bene, non tossire e cerca di capire un po’. Ciò che non capirai è la cosa più bella, ciò che è più lungo è la cosa più interessante, e ciò che non trovi divertente è la cosa più divertente. » Paul Claudel non è chiamato sul set, ma Fabrice Luchini avrebbe potuto citarlo nel preambolo programmatico. Non solo perché il pubblico smette di tossire nel momento in cui lui lo implora, in uno dei suoi sfrontati discorsi di cui lui possiede il segreto. Ma anche perché crea una sensazione oceanica nella stanza. Lui la chiama fraternità: “Voi siete presenti in 600 ogni sera, non mi era mai capitato”si entusiasma l’attore.
Una comunione immateriale
Il fatto è: attorno alla letteratura portata da Hugo a vette stratosferiche si forma una comunione intangibile e che l’attore sa mettere in scena con una consumata arte della suspense, dell’attesa e degli accumuli.
Meno bastardo del solito, a volte addirittura solenne, e quasi doloroso quando Pastorale il Beethoven (“quest’uomo sordo che aveva un’anima sentì l’infinito”), accartoccia e liscia il suo manoscritto, si mette gli occhiali, se li toglie, si strofina la manica sinistra con la mano destra, fissa il pubblico con l’occhio infantile ma astuto di un seduttore patentato. La sua faccia è di plastica. La sua voce vaga in confidenze o invettive. Fa finta di balbettare, prima di pronunciare i versi in modo chiaro. Resta a lungo appoggiato ad un tavolo di legno, si siede sulla sedia e poi sulla poltrona. Tre o quattro viaggi nello spazio, non di più.
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