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La raccapricciante morte di Ghafar Akbari, 48 anni, nella città di Malekan, ha messo in luce la brutalità profondamente radicata del regime teocratico iraniano, una dittatura che da tempo fa affidamento sulla violenza e sulla repressione per mettere a tacere il dissenso e mantenere il potere. La morte di Akbari sotto tortura mentre era in custodia di polizia fa parte di un modello sistemico di violazioni dei diritti umani che evidenzia il totale disprezzo del regime per la giustizia e la dignità umana.
Akbari, padre di quattro figli del villaggio di Yulqunlu vicino a Malekan, è stato arrestato l’8 novembre 2024 come sospettato in un caso di omicidio vecchio di un anno e mezzo. Insieme ad altri quattro, è stato arrestato nonostante la mancanza di prove che lo collegassero al crimine. Durante la sua detenzione, Akbari è stato sottoposto a orribili torture, tra cui essere appeso a testa in giù, lasciato con abiti bagnati a temperature gelide e privato di cibo e acqua per lunghi periodi. Gli sono state strappate le unghie dei piedi ed è stato picchiato così forte che ha avuto bisogno di cure mediche di emergenza.
Gli agenti del regime hanno fatto pressioni su Akbari affinché confessasse, minacciando di accusarlo di crimini non correlati, come l’assassinio di personaggi stranieri. Dopo ore di trattamento disumano, è stato costretto ad ammettere la sua colpa. Akbari ha poi ritrattato la sua confessione al pubblico ministero, dicendo che era stata estorta sotto tortura, ma il regime ha intensificato gli abusi, ordinando un “interrogatorio tecnico”, un eufemismo per tortura più intensa.
Nonostante le sue condizioni critiche, Akbari è stato trasferito in una cella di isolamento nella prigione di Maragheh, dove il personale medico ha ripetutamente avvertito che aveva bisogno di un ricovero immediato. Queste richieste furono ignorate finché non fu troppo tardi. Alla fine Akbari fu mandato al Sina Hospital di Maragheh, dove morì il 16 novembre dopo due giorni di coma. La sua morte sottolinea la combinazione mortale di violenza incontrollata e deliberata negligenza medica del regime.
Il regime ha reagito rapidamente per arginare le conseguenze della morte di Akbari. Le forze di sicurezza hanno minacciato la sua famiglia riducendola al silenzio e hanno organizzato una frettolosa sepoltura notturna con soli 20 minuti di preavviso – un atto insolito e culturalmente inaccettabile nella regione, inteso a sedare la protesta pubblica. Nonostante ciò, un numero significativo di residenti locali ha partecipato alla sepoltura, sfidando gli sforzi del regime di reprimere il dissenso.
Uno striscione celebrativo dell’arresto di Akbari da parte della polizia è stato frettolosamente rimosso da Malekan dopo che si è diffusa la notizia della sua morte, evidenziando ulteriormente i disperati tentativi del regime di controllare la narrazione.
La notizia della morte di Akbari ha suscitato indignazione a Malekan, dove i cittadini si sono radunati davanti all’ufficio della magistratura per chiedere giustizia. Il regime ha risposto con la consueta brutalità, schierando poliziotti antisommossa e agenti in borghese per sedare le proteste e imporre un clima di paura. Secondo quanto riferito, il pubblico ministero locale è fuggito dalla scena mentre la tensione aumentava, evidenziando l’incapacità del regime di giustificare le proprie azioni di fronte alla crescente rabbia dell’opinione pubblica.
Il caso di Akbari non è un incidente isolato ma parte di un modello più ampio di violenza sistemica sotto la dittatura clericale iraniana. Negli ultimi mesi altri detenuti sono morti in circostanze simili, senza che i colpevoli venissero ritenuti responsabili. Le autorità hanno ammesso che le morti in custodia sono un problema ricorrente, ma il regime continua a usare la tortura e le confessioni forzate per inventare cause legali e intimidire la popolazione.
Secondo la legge iraniana, la sicurezza dei detenuti è responsabilità dell’agenzia di arresto. Tuttavia, il regime viola sistematicamente le proprie leggi e le confessioni ottenute sotto tortura rimangono una base legale per dure punizioni, compresa l’esecuzione. Questo uso diffuso della violenza non è un segno di forza ma il riflesso di un regime che si aggrappa al potere attraverso la paura e la brutalità.
L’omicidio di Ghafar Akbari rivela la disperazione del regime di mantenere il controllo a tutti i costi. Tuttavia, la crescente rabbia del popolo iraniano, come si è visto a Malekan e altrove, riflette una società sempre più riluttante ad accettare gli abusi del regime.
La tragica morte di Akbari non è solo una violazione dei diritti umani; è un duro promemoria del costo della vita sotto una dittatura che si aggrappava al potere con la forza e la brutalità. Ricorrendo alla repressione sistematica, il regime costringe involontariamente il popolo ad affrontarlo con pari forza, aprendo così la strada a un’inevitabile resa dei conti con la sua lunga storia di oppressione e violenza.
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