IOci sono gli ultimi tempi che ci prepariamo (pensione, vendita della casa di famiglia); quelli che non vediamo arrivare (una rottura, la morte improvvisa di una persona cara); quelle che decretiamo e che ci liberano (l’ultima sigaretta, la fine di una relazione tossica); quelli ancora notoriamente incerti (il desiderio di ritornare nel proprio Paese d’origine). Nel suo nuovo saggio, I nostri ultimi tempi – Sfidare la nostalgia (Edizioni Allary), Sophie Galabru, professoressa associata e dottoressa in filosofia, da tempo (molto) nostalgica, ci invita a rispondere diversamente che con apprensione e tristezza. Perché se incidono sulla nostra vita, gli ultimi tempi non “segnano sempre la fine”, insiste. Un saggio sensibile e profondo che sonda il nostro rapporto con il momento presente, mette in discussione il passare del tempo e ci invita a riconciliarci con esso.
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Il punto: Perché hai scelto di approfondire il tema degli “ultimi tempi”?
Sophie Galabru: Perché il tema del tempo che passa per me era molto importante, molto caro. La nostalgia era per me un sentimento molto presente. Mi ha addirittura invaso. Ho voluto confrontarmi con questo tema per cercare di trovare una forma di leggerezza, e magari anche superare questa sensazione. Gli “ultimi tempi” rimandano alla consapevolezza dell’irreversibile: ogni momento è sia il primo che l’ultimo, non accadrà due volte. Questo è molto bello, perché significa che ogni momento è unico. Ma questa consapevolezza può stupire, se non interrogare, o rattristare. Questo è stato il mio caso. Quindi ho voluto esplorare questi momenti di “mai più”, di perdita e mancanza, per capire se ero o meno in un atteggiamento troncato e per vedere se potevo superarlo…
Vuoi “sfidare la nostalgia”, dici sulla copertina del tuo libro. A cosa dai la colpa di questa sensazione?
Può essere molto bello quando, in vecchiaia, si tratta di ripensare alla bellezza della propria vita passata o, come con Epicuro, di risollevare il morale nei momenti difficili. Quello a cui miro è la nostalgia come rimpianto permanente del tempo che passa, quello che taglia e frattura la gioia, a volte proprio nel momento in cui la viviamo, danneggiando il presente perché siamo già nel rimpianto. O questa “nostalgia anticipatoria”, come la esprime Amélie Nothomb nel suo ultimo romanzo. È questo meccanismo – che si riferisce alla coscienza dell’irreversibile, dell’ultimo tempo – che cerco di esplorare.
Quali alternative alla nostalgia suggerisci di fronte al tempo che passa?
Ciò che dirò va contro lo “sviluppo personale”, ma vi invito a osare soffrire e a sperimentare la nozione di limite e di impotenza quando si manifesta – perché non decidiamo che invecchiamo, che andiamo avanti… Ci sono limiti che vanno sopportati e che non dobbiamo avere paura di dire e oltrepassare. Ma insisto, in questo saggio, anche su come concepire questi “ultimi tempi”. No, non sono sempre sinonimo di “fine” – questo termine molto scritto che tende a drammatizzare l’esistenza. Questi “fini” sono spesso anche visioni della mente…
Vale a dire?
Non è perché lascio un luogo, un essere, una professione che finisce la mia esistenza. Qualcosa può durare, in una continuità spirituale, memoriale, emotiva. Fondamentalmente questi fini sono solo a livello materiale. Ci sono, ad esempio, relazioni che continuano nel silenzio, nell’assenza, nella separazione. I rinnovi possono anche avvenire, dopo quella che crediamo essere “l’ultima volta”. Certo, le cose passano – e ci passano accanto – ma ci portano anche in altre dimensioni sorprendenti ed emozionanti. Perché la durata è uno straordinario potere di opportunità e di novità, e con essa bisogna riconciliarsi.
C’è un mistero intorno alla morte. Credo che, in una cultura materialista come la nostra – che a volte fa molto male – sia importante ricordarlo.
La scomparsa dei propri cari resiste a questa definizione?
La morte, infatti, è l’ultima volta più assoluta, l’ultima. Ma io assumo questa posizione piuttosto spirituale – o spiritualista, come diciamo in filosofia – secondo la quale, pur essendo irrimediabile e irreversibile sul piano fisico, la morte non è necessariamente una “fine”. Certo, perdere una persona cara è una cosa molto dura, incommensurabile rispetto a tutti questi relativi “ultimi tempi”. Ma del “dopo” non abbiamo alcuna conoscenza e non possiamo sapere se sussiste qualcosa di spirituale.
Che si sia d’accordo o meno con la mia posizione, c’è comunque una sopravvivenza sul piano dello spirito: credenti e atei possono continuare, con il defunto, un rapporto attraverso la memoria, il cuore, le abitudini, le riflessioni, i riti. Alcuni continuano addirittura a conversare con lui. Forse formulano le domande e le risposte da soli. C’è in ogni caso un mistero che possiamo rispettare. Credo che, in una cultura materialista come la nostra – che a volte fa molto male – sia importante ricordarlo.
Lei giustamente scrive che la nostra cultura non ci aiuta a pensare “alla ricchezza del tempo che passa”. Come non ci permette di farlo?
È innanzitutto una storia sull’accelerazione del tempo. Viviamo, spinti dai media e dalle nuove tecnologie, in una forma di emergenza permanente. Non possiamo più meditare, riflettere, aspettare. Ci lasciamo rubare il tempo, ciò che dura, si prolunga. Questa cultura non ci aiuta a simpatizzare con la durata. Né con la morte.
Viviamo in una società che nega, almeno a partire dalla seconda guerra mondiale – perché si è stabilizzata in un certo benessere e in una relativa pace – l’idea della morte come parte della vita. Per noi è diventato insopportabile. Bisogna sempre – e questo si può comprendere – allungare l’aspettativa di vita, rinviare l’ultima volta. Ciò però produce un effetto di repressione e crea una grande speranza, talvolta inconscia, di non morire “mai”. Questa dura realtà, che ci è voluta una vita per accettare, anticipare, prevedere, viene rinviata, rifiutata.
In questo senso non invecchiamo più allo stesso modo?
No, perché invecchiare è il lavoro di una vita. Credo anche che iniziamo a invecchiare molto prima di quanto diciamo. Questo viene costruito se vogliamo evitare che l’idea della vecchiaia “logori” o ci copra di sorpresa. La maturazione non passa solo dal trascorrere passivo degli anni, richiede un rapporto attivo con il tempo, dall’aver meditato e riflettuto sulla propria vita, sulla propria morte. Invecchiare è un compito e una sfida: dobbiamo avere il coraggio di affrontarlo, avere il coraggio di avere paura, di essere tristi… Perché la paura non evita ciò che temiamo, anzi la aumenta.
Ci sono anche esperienze che “ti portano fuori” dal tempo. Esperienze di eternità: gioia intensa, amore meraviglioso, emozione di fronte alla bellezza.
Nel tuo saggio spieghi di essere contrario alla massima popolare secondo cui dovremmo “vivere ogni momento come se fosse l’ultimo”. Per quello ?
Troviamo questa idea tra gli stoici, in particolare Marco Aurelio, che la considera come perfezione morale e garanzia di una vita più autentica, più giusta. Il che non è falso. Ma, diffondendosi nella saggezza popolare, è diventata una massima volta a ottimizzare la propria vita, rendendola più intensa, più piacevole. Per un periodo l’ho fatto mio, pensando che aggiungesse qualcosa in più, vita extra. Mi sono ritrovato in emergenza, nella paura permanente, ostaggio del tempo e dell’idea di una fine. Ho voluto quindi, attraverso questo saggio, sensibilizzare l’opinione pubblica su questo rapporto contabile con il tempo.
Vivere ogni momento come se fosse l’ultimo può farci sentire terribilmente emozionati e preoccupati. Ci esaurisce. E, volendo riempire il nostro tempo di momenti straordinari, ci allontaniamo dalla durata, dalle sue sottili sfumature, dalla qualità di ogni attimo. Contandolo, riempiendolo o distraendoci da esso – come diceva Pascal – ci impediamo di godere del tempo, di contemplarlo, di meditarlo e di osservare ciò che accade dentro di noi.
Giustamente citi tre esperienze che possono offrirci un altro rapporto con il tempo: la bellezza, la gioia, l’amore. Spiegacelo.
Ci sono due modi per avvicinarsi al tempo. O lo vedi come un potere di logoramento, di alterazione e, poiché pensi di andare verso un terribile e tragico deterioramento, sei condannato alla depressione o alla depressione, oppure lo vedi con ottimismo, considerando il potere di maturazione, di creatività, della novità che ti porta e che ti permette, anche nel punto più basso dell’esistenza, anche nel profondo di una fine, di creare opportunità imprevedibili.
Ci sono anche esperienze che “ti portano fuori” dal tempo. Esperienze di eternità: gioia intensa, amore meraviglioso, emozione di fronte alla bellezza. Questo cammino miracoloso, questi momenti di grazia che “cadono” su di noi, ci elevano al di sopra del flusso temporale. A patto di saperli percepire attraverso un occhio creativo. È perché siamo riusciti a catturare la meraviglia di un attimo che usciamo dal tempo. E che sia avvenuto per l’eternità, a prescindere da tutto ciò che accadrà e forse ci allontanerà da esso.
Da scoprire
Canguro del giorno
Risposta
Le nostre ultime volte – Sfida la nostalgiaSophie Galabrù
Allary Éditions (20,90 euro, 220 pagine).